domenica 29 maggio 2011

Amore

l’Amore mi è entrato in
casa
di notte
quando tutti dormivano
perfino io
mi ha tirato fuori
dal letto
mi ha fatto vestire in
fretta
mi ha caricato in
macchina
da lì in
caserma
dove mi ha preso a
calci e pugni

io ero così sicuro
dei miei diritti
che nemmeno
protestavo

mi limitavo
ad un sorriso
insanguinato

ero innocente, lo sapevo
mai avrei dichiarato
il contrario

l’Amore intanto
continuava a
picchiare

(Marco Zangari © 2010)

martedì 24 maggio 2011

lunedì 23 maggio 2011

"...e la pietra gridò"

sono seduta nella hall dell'hotel....
non c'è tanto movimento... mi gusto la mia granita al limone, siciliana ovviamente...

è il 23 maggio...
io avevo appena 9mesi, quel 23 maggio 1992,
ero in ospedale, in una culletta asettica,
mia madre era accanto a me...
c'era la tv accesa...
EDIZIONE STRAORDINARIA
"il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta sono stati uccisi sulla A29, nei pressi di Capaci"
19anni dopo, io sono qui a scrivere di lui, di loro... le mie stelle polari...
Falcone, Livatino, Cassarà...
uomini di giustizia
uomini di speranza
non utopisti
loro credevano...
loro credono...
credono attraverso me, attraverso tanti giovani che sognano fortemente di ridare dignità a questa città...
di ridare dignità a quel mondo asservito alle mafie...
forse non esiste più Cosa Nostra,
non è più il tempo delle grandi stragi...
è tempo però dei grandi fenomeni mafiosi,
ed in parallelo, dei grandi fenomeni antimafiosi...
non è il corteo di oggi, quello che attraversa Via D'Amelio e arriva all'Albero di Falcone, ad essere testimonianza di questo fenomeno...
è più che altro la presenza di tante lenzuola bianche, di tanti giovani, di volti colmi di speranza... è questo il miracolo del grande fenomeno antimafioso...
giovani realmente vivi, non asserviti alle logiche mafiose,
non succubi.
come volevano loro...
se loro non riuscirono a gridare, lo fece la pietra per loro...
e quell'eco arriva qui, adesso, alle nostre coscienze...
la pietra parlò per loro, e la loro voce arriva adesso a noi, chiara e distinta...
monito per le anime, monito per le menti...

"La mafia è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha un principio una sua evoluzione e quindi anche una fine." (Giovanni Falcone)

la granita è finita, è tempo di andare a lavorare per il futuro...

domenica 22 maggio 2011

Stanza 101, prego.

Tutti sanno cosa c'è nella stanza 101.

Tutti.

Per alcuni, la paura principale è quella di esser seppelliti vivi, per altri sono i topi.

Per tutti è la solitudine.

Una brezza di desiderio di libertà spira nelle circonvallazioni dei nostri castelli mentali, e ci sorprendiamo a chiederci perchè questa brezza non sfiora i grattacieli di freddo calore che sovrastano il centro. Come artisti pretendiamo di vivere nello sfarzo dei sentimenti conformi, nobili e pii, nei valori, oh i valori! Conquistiamo la libertà di parola e parliamo per mezzo di idee, Platone sarebbe fiero di noi, e le nostre idee non hanno nemmeno l'originalità dell'Oltreuomo. Avanziamo la pretesa di conquistare l'Oltreuomo. Il codice criptato della vita-nella-libertà. Troviamo l'autorità giusta cui condannarci.

Che autorità sovrintende all'Amore?

Forse il Consiglio Superiore dell'Erotismo? Troppo scontato, credo.

Liberiamo l'amore dal feticcio, libero dal masochismo. Liberiamo l'amore dalla sua semiotica. Sleghiamolo dall'etere, lasciamo che esso trapassi atomi, molecole e vada a riempire gli interstizi dello spaziotempo. L'Oltreuomo annichilirà il bisogno del significante. L'Oltreuomo annichilirà se stesso, perchè questo mondo può fare a meno di lui. Questo mondo ha bisogno che l'eterotopia frantumi le parole. Le parole sbagliate. E cioè ogni singola parola che abbia un significato.

Liberiamoci, e terrorizziamoci.

La stanza 101 contiene il mondo privo di significanti.


Quindi s'intreccia la danza degli angeli del fast food, un groviglio di camicie da sbottonare, visioni di lenzuola sfatte, microferite di piacere che come aghi frantumano le poche sinapsi integre che ancora possiedo. Nessuna di loro prevale. Danzano, ammiccanti, desiderose. Volano da un lato all'altro del locale, si spogliano lentamente tra l'indifferenza della Massa, ente sacro ed eterno della storia.

Una danza distopica, ghirigori preludio di piacere, manca un passato o forse il passato può essere modificato. Mi sento protetto, la danza delle Chimere mi domina e mi sottomette.

Una di loro mi si avvicina.

Il suo alito caldo brucia le mie labbra, e lei cola su di me e io colo sul ventre dell'universo ansimante.

Sogna di far l'amore con Selene, l'uomo che mai ha amato il cielo.

Lei è bionda e accecante. Ha delle piume chiare di colomba bianca. Distinguo il suo meraviglioso naso mentre le mie mani acquistano un'anima in cambio di pochi spiccioli d'adenosintrifosfato che sgretola con grazia e violenza i bottoni della camicetta.

Ho voglia di scopare. Lei ancora di più.

Anche la pelle del suo corpo brilla, luce che diventa tremolante quando impulsi di isteria erotica eccitano i recettori del suo morbido sottile collo, scivolano giù le parole del contatto verso architravi di sottile sensualità, tetto scoperto di un seno piccolo e desiderabile almeno quanto la sottomissione. E' un leggero gioco di azione-reazione. Ogni cellula della sua pelle sfiorata è un leggero ansimare.

Sanguina. Sanguinano le sue ali, sanguina la sacra rosa. Sangue nerastro. E' il sangue dell'oblio. Sento di perdere i tratti del mio volto, sento che non hanno alcun senso, sento che anche lei sta cambiando, metamorfosi di puro peccato.

Sento che io la penetro con forza, mentre lei sembra racchiudere tra le gambe le voglie di Dio. Non c'è comunione, c'è solo contingenza. E non può esserci altro.Le sue unghie sbrindellano la pelle morta delle mie emozioni in successione, i suoi orgasmi si intrecciano e le parole perdono qualunque significato. Non c'è che piacere, e il piacere non esiste. Il mondo fuori va a trovare Berkeley, si dissolve sempre più l'angelo decaduto. Lentamente, realtà in dissolvenza andrà a ritrovare il suo posto nel nulla di Krishna, e io mi ritrovo con la mia mano sporca di sperma,seduto sulla tazza del cesso. Forse adesso potrò fare la doccia.


La stanza 101 contiene le nostre paure. Tutte. La stanza 101 è la stanza della solitudine, perchè chi non ha nessuno da rinnegare, da tradire, è destinato alla condanna assoluta. Esiste il giudice trascendente nell'alienazione della libertà?

E' dolce lasciar fluire il ruscello idilliaco dei suoi occhi, a separare un tappeto di riccioli d'erba dorata, cime innevate di splendente biancore e calda atmosfera rosata di labbra che dipingono tramonti, qui, nel giardino delle illusioni. E' dolce vedere che l'idillio prende lentamente possesso delle tue mani, e tu inizi a dipingerlo sopra lo schema precostituito della cementificazione selvaggia del tuo essere-per-amare. Sposta i progetti del tuo cielo, della tua aurora, del tuo paesaggio, e dipinge guidando la tua mano ciò che il supremo dittatore Eros le ordina di dipingere.

Scova chi sta assoggettando l'arte del tuo pensiero.

Sei tu, che vuoi sottostare.

Sei tu, incapace d'amare.

Già sogni il ciclico ripetersi di baci e carezze levare poesie d'encomio alla tua abilità nello scovare punti erogeni, già le tue notti inconscie sfiorano le reminescenze delle felicità future mentre fanno capolino in fotogrammi invecchiati sul suo sorriso. Già tu ti sei consegnato al volere del terrore e della solitudine.

E capisci questo, cogli l'attimo di lucidità, capisci che è una cazzata e amare è una cazzata, e capisci perchè Dio è un cazzaro, capisci perchè questa fitta pioggia d'amore ti scivola addosso come il riflesso delle luci natalizie in centro a dicembre.

Nella splendente spiaggia dell'isola di Amore Vero realizzi che ami la sua libertà, e la sua libertà distruggerà la tua. E decidi di ribellarti, e allora ti cattureranno e ti porteranno nella stanza 101.

Guardati. Solo. Insignificante. Non vali un cazzo, hai il pisello in mano e tutto ciò che sai fare è immaginarla mentre scopate in un fast food. Sei solo. Sei fottutamente solo e puoi dar da mangiare al gatto finchè il gatto non avrà noia di nascondere la sua anima e inizierà a imprecare mentre divora la testa di quel bambino fastidioso e piagnone. Non puoi che amare, o sei condannato a morire.

Riuscirai ad amare?

Provaci.

Provaci.. vai a carezzarla, ferma la sua avanzata, fermala! Fissala in quell'attimo di eternità sospesa bellezza. Fissala, conservala nel nulla della privazione semantica e riempiti della vostra contingenza. Carezze, baci, sesso. Veri. Veri? Cazzo, non star qui a sindacare, ancora non capisci che devi amare te stesso per amarla? Non capisci? Ti divorino i lupi, vada in malora il demonio, tu sarai e sarai soltanto quando il tuo sguardo contemplerà la luce dei suoi quark, e non la sua cazzo di anima essenzapparente, ermeneutica dell'alienazione amorosa.

Non è difficile se ci provi. Non è difficile se la smetti di parlare e ti consegni al linguaggio dello sfiorarsi di universi.

E' scontro. E' lotta per la sopravvivenza.

Già sogni di baciarla, e lei scioglierà allora l'elettroshock, e dirà che sei salvo.

Allora, potrai dire di essere condannato.

Ma la tua sarà la prigione del cielo.


Non puoi fuggire

La prigione

della realtà

Puoi far sì

che le sue pareti siano le pareti dell'universo.


Amare, privo di senso, prometto che qualcosa di più sensato la scriverò la prossima volta.

Oggi è soltanto confusione.

Ma a me la stanza 101 piaceva, il letto era comodo e la temperatura calda.

Il piscio del mio terrore aveva un soggetto.

Da oggi, chi mi cambierà le mutande?

venerdì 20 maggio 2011

Metanoia

Metanoia. Sensazione di serenità, sensazione di pace, sensazione di molteplice, sensazione di voglia d’amare che si riflette in piccoli volti, abissi dell’anima.
La metanoia deriva dall’inerzia. L'inerzia che mi ha restituito un ego quanto mai a brandelli e quanto mai forte e progressivo.
Meta-, perché trascende il significato della parola “noia”. Trascende quella che sarebbe la noia reale, eppure è noia, non va questa situazione, è provvisoria e destinata ad evolvere. In cosa? Questo è un problema.
La metanoia è frutto di quella libertà che ci sembra di possedere quando non siamo innamorati, sommata alla nostra nostalgia di quelle fottute catene d’amore. La metanoia è frutto di un mondo illusorio etereo, in cui vivi sereno attraversando corpi, situazioni, eventi senza che questi riescano a procurarti una vera emozione.
La metanoia è nostalgia.
La sua manifestazione principale è la lacrima. Non importa se a piangere sei tu o il cielo. Sembra paradossale, eppure è così. In una lacrima sul suo volto vive intrappolato il ricordo più bello, tra lacrime di cielo sogni di sfiorare dolci mani, abbracciare piccoli esserini dubbiosi e fragili eppure così etero topici.
Si, eterotopici, perché i loro occhi aprono su altri luoghi. Aprono sul giardino delle illusioni, aprono su te riflesso nell’universo, mentre la loro anima esplode sotto la soffice pelle che tanto vorresti baciare.
Negli abissi di quegli occhi il giardino delle illusioni trova la sua ragion pratica, la sua ragion d’essere.
Vorrei è un verbo così dolce.
Davvero vogliamo ciò che non abbiamo?
Vorrei.

Vorrei danzanti
esplodono
i suoi occhi.

La metanoia dipinge la sua morte. La dipinge con colori caldi e saturi di desiderio. Con tratti netti ma delicati. Con parole precise, nomi precisi, sintassi determinata.
Ma quando arriverà il momento di uccidere la metanoia?
Quando lo spettro dell’amore tornerà a intorbidire la mia mente?
Ho paura di tutto questo.

Paura. Mentre la ammiri, mentre ammiri la sua bellezza, senti un brivido. Un avvertimento. E qui la paura compie il suo dovere. Proteggermi. Devia i miei pensieri, “stai andando oltre!” sembra dirmi. Ho paura. E tanta voglia d’amare. Un conflitto d’applicazioni nel cervello. Vincerà la voglia d’amare. La metanoia tornerà a far posto alle catene, e sarò di nuovo prigioniero di una prigione senza mura, la cui dolcezza spesso si rivela letale.

In a world of madness and miracles... Grandi speranze. Partorite da pure illusioni. Diluito in questo contenitore di corpi che è la realtà, mi ritrovo ancora una volta a proiettare il film della mia felicità. Io, lei.
Una lei multiforme, variopinta come i paesaggi d’autunno, variopinta come le mille accezioni del suo ego.
Una volta accarezza i miei sogni facendosi rincorrere, con in mano una Reflex.
Un’altra mi fissa, mentre perle d’acqua scorrono sul suo volto.
In comune, la stessa sensazione di benessere assoluto che riescono a comunicarmi.
In comune il mio desiderio d’amarle, ed il loro desiderio di essere amate.
Dove sei?

Where I end and you begin. Sono alla ricerca del tuo inizio, che sarà la mia fine, che sarà il mio limite, che sarà il mio confine. Continuo ad espandermi, e sento il bisogno di avere un limite. Ho bisogno di un mondo che accarezzi il mio, voglio ancora l’aurora nel mio cielo, forte e devastante nella sua essenza.
Voglio trovare la mia fine, ed il tuo inizio.

La metanoia, confortevole insensibilità di cristallo, pronta ad essere infranta.
La paura, sentinella della metanoia, destinata ad essere inibita.
L’amore, oltre la mia assoluta solitudine, in quella eburnea essenza di donna.


12 consigli per scrittori




Stasera ho voglia di elargire esperienza e saggezza, e dall’alto della mia ormai consolidata fama di autore, ho deciso di mettere insieme le 12 cose che un aspirante scrittore NON dovrebbe fare:

1) Anzitutto, NON si definisce “scrittore” a meno che costretto con la forza (o accecato da una ragazza intellettualoide che potrebbe dargliela), e anche allora lo fa con un sorrisetto imbarazzato. Ognuno ha la sua definizione del termine, ma di sicuro saper usare il Word e mettere insieme delle cose che amici/ragazza/mamma hanno trovato “bello” non basta. A volte non basta nemmeno aver pubblicato uno o più libri, ma questa è un’altra storia.

2) NON passa il tempo a parlare di scrittura, di libri, di scrittori e compagnia bella. Sì, lo sappiamo che ti piace, ma se vuoi masturbarti, non farlo davanti a tutti, per favore.

3) NON si preoccupa di qual è il suo genere, anche se ha sempre ben presente di cosa sta parlando e di come lo sta dicendo.

4) Importante: NON parla di libri che deve ancora scrivere. In quel modo lì, siamo tutti scrittori. Anche noi UN GIORNO scriveremo quella storia che, di sicuro, verrà trasformata in un film di successo e ci assicurerà fama e prosperità. Per il momento, però, quello che abbiamo è una pagina bianca e un cursore che ci prende per il culo. Il mondo è pieno di Grandi Capolavori Che Devono Ancora Essere Scritti; di quelli veri, ce ne sono molto meno. Non basta che ce “l’hai tutto in testa”, che in fondo quel libro “parla di te, quindi mica te lo scordi”. Se stai parlando di un non-libro, allora al massimo sei un non-scrittore.

5) NON usa come scusa la pigrizia, e NON ha mai troppe cose da fare, anche quando le ha davvero. Sarebbe bello se la scrittura avvenisse come nei film, o negli stereotipi dell’Artista Illuminato che si gratta la pancia tutto il giorno e poi viene sconvolto dall’Ispirazione, dalla Musa, dalla Madonna e comincia a comporre. Forse per alcuni è così. Per tutto gli altri miseri mortali, non-geni ma forse-scrittori, scrivere vuol dire alzarsi le maniche e dargli sotto, nonostante gli impegni, il caos intorno, i problemi, le cose da fare, il ciclo della fidanzata, la bolletta da pagare. Non si diventa scrittori senza un minimo di Disciplina –che brutta parola, lo so, ma è la verità… La scrittura “ogni tanto” è per chi ne ha il passatempo; la passione della scrittura è altra cosa, e non vive solo di sveltine.

6) NON pensa alle interviste, alla sua bella faccia in tv, agli articoli sui giornali, ai talk-show, e in generale a tutte quelle cose che con lo scrivere non c’entrano niente. L’artista non deve spiegazioni a nessuno, non deve apparire come allo zoo. L’unico suo debito con il lettore è saldato attraverso la pagina scritta; tutto il resto è Baricco.

7) NON sa che farsene degli esercizi di stile, e li lascia agli scribacchini, agli intellettuali e a quelli che conoscono le parole difficili.

8) NON smette mai di leggere, perché leggere vuol dire studiare, imparare, capire la materia a cui si cerca di dare forma. Non farebbe male nemmeno non smettere mai di avere un atteggiamento curioso nei confronti della vita, anche nei suoi aspetti più folli e disastrati.

9) NON sottovaluta l’importanza della riscrittura. Ancora una volta, ci sono i geni che scrivono di getto delle cose stupende, e gli altri che vanno avanti con palla lunga e pedalare, cancellando, togliendo, aggiungendo (anche se io sono sempre per il tagliare), senza innamorarsi mai di quello che si è scritto al punto da non volerlo violare, e senza essere così pigri da lasciar perdere. A volte la riscrittura (più che la pubblicazione) fa la differenza tra uno scrittore e un non-scrittore.

10) NON si vergogna mai di quello che ha creato, se quando l’ha fatto ci ha messo dentro cuore e fegato (ma questa non è comunque una valida ragione per trasgredire il consiglio 1 e 2). Non esistono le cose a metà: quello che hai scritto deve dire AL MEGLIO quello che volevi dire, o sennò lascialo nel limbo dei non-libri.

11) NON si monta la testa con i complimenti (pochi e di parte) e NON smette di ascoltare le critiche (tante e ovunque) che valgono davvero qualcosa, perché sono quelle il vero motore del cambiamento.

12) NON ascolta consigli, a meno che non siano dati da una fonte autorevole (è questo il caso).

Spero che d’ora in poi righerete dritto, cari i miei giovani scrittori. Adesso vi saluto, perché devo cominciare il mio secondo romanzo. Non ve l’avevo detto che ne sto scrivendo un altro?
Sì, certo, ovviamente, e parlerà di tante cose, per esempio…

Giocatori, gatti, haiku


Tutto così, come mi viene.
Stare a Big Sur significa sveglia tardi, occhieggiare il mattino là fuori, vedere se il mare è agitato, come il vento fa piegare gli ulivi della campagna. Significa nessun rumore, cielo blu e sole, significa fare quello che ti pare delle tue ore, del tuo oggi, del tuo domani e del tuo dopodomani. Significa sedere e riuscire a vedere un monte Hozomeen, lontano, che guarda come se tutto questo fosse solo uno scherzo.
Davanti al monte Hozomeen ho seppellito un gatto. Era morto proprio nel mio giardino. Le mosche gli mangiavano gli occhi. Ho preso una pala e ho scoperto che un corpo morto ha un peso consistente. Mi chiedevo, ma se ha perso l’anima, non dovrebbe essere più leggero?
L’anima ci sembra una cosa impalpabile, che c’è e non c’è. La usiamo nelle poesie, nelle liturgie, e in tante altre fregnacce.
Quel gatto lì non so se avesse avuto mai un’anima. Non so nemmeno se l’ho avuta io. Però era pesante, e rigido. Farlo entrare in quel sacco nero era un’impresa.

La morte la vita e Big Sur. Qui siamo tutti bevute, sorrisi, occhiali da sole e pose da rockstar. Qui le donne vengono e ci guardano come non guardano mai i loro ragazzi. Il sole ci fa pensare ad un’estate che non è mai andata via.

Uno dei miei film preferiti è “Il giocatore”, con Matt Damon. Quello sul poker. Me l’ha ricordato un mio amico, che ora si sveglia mentre io porto avanti la mia notte infinita. Lo guardavamo spesso insieme.
E ho pensato che a volte è così. Ti fai due conti, e capisci che il pollo da spennare al tavolo sei proprio tu.
A volte ti lasci confondere da un sogno più grande e perdi di controllo la situazione, la mano, tutta la posta.
A volte ti vengono in mente solo le tue sconfitte, anche se ci sono state tante vittorie.
E pensi che non puoi perdere quello che non punti.
Però non puoi neanche vincere.

Il gatto alla fine cadeva in fondo al sacco nero. Il rumore ti scuoteva il fondo dello stomaco. Ma noi abbronzati, noi stanchi, noi sorridenti di Big Sur lo portavamo al bidone, e lì aspettavamo che un’altra creatura di Dio finisse il suo percorso. Che senso ha avuto la sua vita? Che senso c’era in questa storia?
Nessuno, probabilmente. Per questo, con testa molle, vuota, strana, sono andato dentro, mi sono lavato le mani e ho stappato una birra. Avevo un sapore strano in bocca da lavare via. Il gatto era andato, io ero ancora lì
in uno strano
luminoso haiku
che non aveva alcun senso
ma la birra scendeva bene e il crepuscolo scendeva, e mentre il gatto si irrigidiva nel sacco nero mi veniva un sorrisetto pazzo, uno alla Jack Nicholson in Shining per intenderci, ma anche benevolo, come il tizio di Don’t worry Be happy, e pensavo ai sacchi neri, ai tramonti, alle cose da fare, e sì, è tutta una partita del cazzo, e a volte devi sederti a quel tavolo fottendotene dei soldi, col solo obiettivo di battere il tuo avversario, e più è tosto e più la cosa ti stuzzica. Sederti al tavolo coi peggiori figli di puttana, ed uscirne in qualche modo vivo. Quanti possono dire di averlo fatto?
Il gatto forse no, ma io sì.
Che poi magari puoi farcela anche bluffando, ma quello è anche meglio. Li hai fottuti. Loro potranno sempre ammazzarti, ma quello che gli hai fatto tu, non poteva farglielo nessun altro.
E i soldi, baby, non c’entrano niente.
Quindi sii te stesso, credici, non cambiare una virgola, sii sporco e santo, siediti a quel tavolo, e fai quel che sai.
E cerca anche di non finire in un saccone nero.
C’è tempo.

martedì 17 maggio 2011

Gli eroi di Big Sur




Il Nostro Eroe ha avuta una di quelle giornate, come le hanno tutti. Però ne ha avuta una di troppo. Così, dopo aver gettato altre ore inutili giù per il cesso del “meglio fare qualcosa oggi per non pentirsene domani”, decide che ne ha piene le palle. Ha sacrificato ore e ore che nessuno gli darà indietro, e nemmeno lo hanno pagato –ma se lo avessero pagato, sarebbe cambiato qualcosa? Quelle ore sarebbero tornate magicamente indietro?
Il Nostro Eroe ne ha piene le palle, così butta in valigia le prime cose che trova, mutande, calzini, spazzolino, getta tutto in macchina e riparte. Non hanno nemmeno provato a fermarlo. A questo punto, comunque, non sarebbe servito a molto.
Ed eccolo sull’autostrada, giornata nuvolosa, qualche goccia sul parabrezza come se Dio farfugliasse qualcosa ma non riuscisse alla fine ad esprimere il concetto –ed è di quel concetto lì, che il Nostro Eroe avrebbe bisogno. Ma visto che non c’è, punta verso la sua Big Sur.

Digressione (se volete, potete pure saltarla. Io la scrivo lo stesso perchè mi piace, la birra scende bene e la notte non ha nessuna fretta).
Tanto tempo fa uno scrittore chiamato Jack Kerouac scrisse un libro intitolato “Big Sur”. Big Sur si trova in California, non lontano da San Francisco. Ex rifugio per poeti e Beat, oggi posto “in” per le vacanze di ricchi coglioni –il tempo rovina anche i luoghi, oltre che le persone.
Il libro racconta di Kerouac che, diventato famoso dopo la pubblicazione (drammaticamente tardiva) di “Sulla strada” (o “On the Road”, se preferite: io preferisco), si era un po’ perso tra fan, critiche lecchine e megasbronze, così salta su un treno verso San Francisco e accetta di passare un po’ di tempo da solo nella capanna di un amico, nell’isolatissima Big Sur. Lo fa per ritrovarsi, per scrivere, per respirare. Anche lui, come il Nostro Eroe, ne ha le palle piene.
I primi giorni scorrono che è una bellezza: vita semplice, pasti regolari, meditazione, esplorazioni, dare un nome a tutte le cose. La notte Jack va sulla spiaggia, davanti all’oceano spaventoso e affascinante, e scrive un lunghissimo poema chiamato appunto “Mare”. Gli uccellini cinguettano, Buddha sorride, le ragazze non mancano nemmeno troppo. Poi succede qualcosa. Forse Jack si rompe le palle. Si rompe le palle dell’averne piene le palle, e così molla la sua bella capannetta a Big Sur, che tante piccole gioie gli aveva regalato –gioie che lui aveva provato a descrivere, prima di ricadere in uno dei soliti inferni, e che ci fanno pensare che forse, prima di inabissarsi dentro l’ultimo giro di oceano, tutti noi ci meritiamo una benefica, dolce, privata Big Sur.
Fine della digressione.

Il Nostro Eroe è al supermercato. Ha fatto la spesa, per resistere qualche giorno nella sua solitudine. Roba di prima necessità, come la cassa di birra in offerta a 9 euro.
Adesso è pronto per la sua Big Sur. Arriva, parcheggia, apre il cancello mezzo rotto. Si fa strada nel giardino incolto. Una volta dentro, accende la luce e illumina covoni di polvere e stanze vuote. Manca l’acqua. Le stanze sanno di umidità.
Il Nostro Eroe sente di essere arrivato finalmente dove doveva.
Pensa un po’ a Jack, che era l’eroe della sua adolescenza. Ma Jack non era un eroe, e nemmeno il Nostro Eroe lo è. Sono parole che non vogliono dire niente, in una sera di maggio che lentamente affonda nel mare. Magari un eroe è uno che si porta avanti la vita che gli è capitata finchè ce la fa- e quando non ce la fa, allora deve fermarsi da qualche parte per tirare il fiato. Qualcuno che, mentre tutti lo tirano da una parte o dall’altra per dirgli come vivere la sua vita, ha bisogno di silenzio e cielo per ricordarsi che quella vita è solo sua.
Qualcuno che forse non scriverà poemi sul mare, ma stasera aveva voglia di venire fin qui, in una stanza dalla quale l’orizzonte si perde, e mettere giù queste parole mentre beve una birra in offerta e tutto quello che pensa è –nonostante tutto, ancora vivo.
Saluti da Big Sur,
un Eroe.

sabato 14 maggio 2011

ALTAR BOYS

Ci sono uomini, uomini veri, che sanno sempre cosa è giusto o sbagliato. Anche prima di chiedergli una cosa qualunque, puoi star certo che se la fanno loro è giusta a priori, altrimenti è probabilmente sbagliata a priori. Ecco, a queste persone è inutile fare domande. Devi lasciarle stare, queste persone.

Ci sono uomini, uomini veri, che dicono che i rapporti omosessuali sono contro natura. Sono dei machi, mediamente omofobici, che al cesso si portano Quattroruote e hanno fantastici orgasmi guardando decine di simboli fallici.
Ma non era meglio la figa?

Ci sono quelli sempre puliti, sempre ordinati, sempre "a posto" coi vestiti la famiglia e le preghiere. Sempre a posto soprattutto con se stessi. Sono i Mariani, ad esempio, o le Martini. Quelli che ne sanno più di chiunque, che se non hanno fatto i chirichetti almeno una volta, da piccoli, allora c'è qualcosa di strano, perché continuano a farlo da grandi. Questi bambini machi, che scopano con l'uccello ma non godono mai con tutto il corpo, che godono come pazzi per rigori assegnati o sbagliati.
A una certà età non puoi più fare il chirichetto: o ti fai prete o ti fai una bella scopata. Questi uomini, a cui non devi mai chiedere niente e da cui devi tenerti alla larga, hanno scelto di fare entrambe le cose.

mercoledì 11 maggio 2011

La valigia [Racconto]

Se la stava prendendo comoda, come sempre. Aveva ancora da fare la valigia, ma questo non era un problema.
Passò il pomeriggio a guardare la televisione senza realmente vederla, intento con diverse parti della testa a pensare alla partenza, alle cose da portare, a quelle di cui poteva fare a meno. Altro canale. Al fastidio di viaggiare la notte, al sonno perso, alla cena da fare in fretta o evitare. Altro canale. Al ricordarsi di chiudere acqua, luce e gas. Altro canale. Altro canale.
Alla fine spense la televisione e si mise semplicemente a fissare il soffitto. Era già stanco ancora prima di partire.
Dopo un po’ si stufò di fissare il soffitto e si alzò per guardare fuori dalla finestra. La strada. Le facce. Gli ingorghi. Le luci accese in quel pomeriggio nuvoloso di fine gennaio. Sembrava già sera inoltrata e invece erano soltanto le sei. Cominciò persino a cadere qualche goccia. Era troppo. Tornò al divano, accese la televisione e rimase a guardarla finchè non si addormentò.

Quando si svegliò la televisione era sintonizzata su qualche canale, e s’erano già fatte le sette. Merda!, sospirò. Balzò in piedi così velocemente che perse l’equilibrio e ricadde sul divano. Da lì, sprofondato, intravide il buio sempre più fitto fuori. Doveva aver piovuto forte mentre dormiva. L’umido e il freddo erano dappertutto. Proprio il tempo con cui non si sarebbe mai mosso di casa, eppure doveva partire proprio quella sera. Non che fosse cambiato molto, se non fosse piovuto. Aveva pochissima voglia di partire, e allo stesso tempo sapeva che era l’unica cosa che gli restava da fare. Sbadigliò. Si alzò e andò a farsi un caffè.

Si concesse con calma quel caffè, e poi si lanciò a preparare la valigia. Per prima cosa, dovette tirarla fuori dallo sgabuzzino. Era stracolmo. Dovette tirarla fuori a strattoni, tra una pioggia di calendari già segnati e lucine intermittenti che cadevano, fogli ingialliti e vestiti che sapevano di muffa. Guardò la sua valigia, vecchia e impolverata. Non si era mai reso conto di quanto fosse grande. Accese di nuovo la televisione nella sua stanza, per farsi compagnia, e cominciò a preparare la valigia.

L’aveva già fatto altre volte, molte altre volte. Eppure quel pomeriggio gli riuscì tutto difficile. In più s’era messo da solo una fretta folle, senza motivo. Cominciò ad aprire armadi e cassetti, a tirare fuori maglioni e camicie e mutande. Ogni tanto inciampava in qualcosa e mandava fuori una sonora bestemmia che si spegneva a livello del lampadario pieno di ragnatele. Cominciò ad innervosirsi. Spense la televisione, poi la riaccese. Sembrava che ogni indumento che avesse fatto entrare in quella pur grande valigia sarebbe stato determinante –come se fosse questione di vita o di morte, o giù di lì.

Passò un’ora, e ancora c’era ben poco nella valigia. Si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte. Decise di prendersi una pausa da quella furia isterica. Andò in cucina, si aprì una birra, la versò nel suo boccale, poi tornò nella sua stanza. Si distese sul divano a guardare la televisione e a bere, mentre da fuori arrivavano i rumori del traffico.

Finita la birra, spense la televisione. La valigia era sul letto, aperta. Vederla così gli metteva una strana ansia. Qualcosa però lo teneva inchiodato al divano. Era sempre più sera là fuori, ma lui si sentiva come in un’altra dimensione. Si alzò e, tanto per far qualcosa, andò ad accendere una candela che aveva infilato tempo fa nel collo di una vecchia bottiglia di whisky. Guardò un po’ la fiamma che ardeva nel buio della stanza, illuminando debolmente lui, il divano, la televisione e la sua valigia aperta.

Si stava quasi riaddormentando, quando di colpo si rese conto che il tempo stava passando. Scattò in piedi, accese la luce e ricominciò a correre avanti e indietro, a prendere vestiti, a scartarli, a gettarli via –e poi libri, un quaderno, qualche maglietta, e non sarebbe stato meglio farsi anche qualche panino?
Centrato. Il dubbio sul panino lo stordì. Cosa doveva fare? Poteva farne a meno, certo. Oppure no?
Tornò in cucina, si aprì un’altra birra, se la versò nel boccale e tornò al divano. Per fortuna il telecomando era nei paraggi.

Di nuovo finì la birra, di nuovo spense la televisione. Di nuovo si ritrovò a fissare la candela accesa in totale abbandono. Stavolta a scuoterlo fu una folata di vento ch’entrò dalla finestra che aveva dimenticato aperta e spense la candela. Quel buio istantaneo lo scosse come una doccia gelata. Corse ad accendere la luce, poi si precipitò di nuovo da tutte le parti. Sudò, bestemmiò, ma alla fine la valigia era pronta. La guardò qualche istante, soddisfatto.
Era pronto per partire.

Stava seduto sul divano, a non far niente se non guardare di tanto in tanto l’orologio. Adesso la sera fuori si era fatta meno chiassosa. La gente era tornata a casa. La giornata era finita per tutti.
Non aveva più molta voglia di partire, ora, ma sapeva che doveva farlo. Quel viaggio era proprio quel che ci voleva. Se lo ripetè diverse volte, poi si alzò e, tanto per fare qualcosa, aprì la valigia. Gli sembrò piena di cose inutili. Tolse via un maglione e un paio di magliette, poi tornò a sedersi. Si accese una sigaretta. La fumò guardando la televisione. Non c’era granchè. Dopo un po’ si alzò nuovamente, tornò a controllare la valigia e gli sembrò di nuovo troppo piena. Stavolta tolse via un altro maglione, un paio di libri e qualche mutanda. Ecco, così era meglio. Gl’era tornata la voglia di partire. Non vedeva l’ora. Tornò a sedersi.

Andò a versarsi un bicchiere di vodka allungata con succo d’arancia. La bevve mentre guardava fuori. Non c’era quasi più nessuno per strada. Cominciò a pensare alla stazione, al rumore del treno che arriva. A quelli che partono. Alla gente che saluta. A quella che va via. La folla che aspetta gli orari. I ritardi. I binari. L’odore vago di piscio. Le pensiline rotte. Bevve un altro sorso. Poi, tornò a sedersi sul divano.

La sera là fuori sembrava sempre più lontana. Non guardava neanche più la televisione. Se ne stava nel silenzio della stanza, a bere e ad aspettare. Faceva molto freddo. Si rese conto come in un sogno che la candela s’era spenta, così si alzò per accenderla. La fissò per un po’, stupito e annoiato. La valigia era nel letto, completamente vuota. A poco a poco aveva tolto tutto. Alla fine, aveva deciso che non voleva portarsi dietro niente di quel che aveva –non per quel viaggio. Se la sarebbe cavata come poteva. Gli piaceva l’idea di viaggiare senza valigia. Si sentiva molto più leggero. Libero, quasi.
E quello in fondo era un viaggio da fare quasi nudi.
Accese un’altra sigaretta, e aspettò.

Fuori non si sentiva più un rumore. Era ora che uscisse. Si alzò, andò a pisciare e poi cominciò a sistemarsi. Prese lo spazzolino. Controllò la giacca. Era tutto in ordine. Chiuse acqua, gas e luce. Si mosse a tentoni verso la porta, mise la mano sulla maniglia, ma ci ripensò. Accese di nuovo la luce, tornò in cucina e si fece un’altra vodka e arancia. Tornò nella sua stanza, si accese una sigaretta e bevve il suo drink.

Beveva e guardava la candela. Spense l’ennesima sigaretta.
Restò lì, nella stanza vuota e in penombra, con la valigia vuota sul letto e la luce della candela che ardeva mentre fuori il buio era sempre più fitto. Sospirò, ben sapendo che non c’era mai stato nessun posto in cui andare.
Fissò la candela ancora un po’.



Marco Zangari © 2005

martedì 10 maggio 2011

L'ARIA DI CASA E DELLA MONTAGNA

Sono le 17.42
di una domenica di maggio. Sono finalmente a letto dopo 18 kilometri "a spasso" tra i monti.
Non è stato facile. Non è mai facile quando non sei allenato. L'unica cosa che puoi fare è contare i danni e notare nonostante tutto di essere ancora intero. In grado di partire di nuovo.



Sono le 17.46
e la luce filtra sempre più opaca dalla finestra. La prima cosa a cui penso, mentre faccio un po' di stretching, sono i tuoi occhi illuminati dalla stessa intensità di luce. Li ricordo così, vivi e sorridenti mentre ti bacio il collo risalendo verso la bocca. Intendiamoci, la luce è l'unica cosa uguale a quel giorno. Per il resto la serranda NON è nello stesso punto (è molto più giù), l'orario NON è lo stesso (è ben prima) e io NON sono appena tornato, ma anzi entrambi aspettiamo un treno per andare via.
Abbiamo discusso per ore. Abbiamo discusso da ieri notte. Abbiamo discusso anche con gli occhi, quando sembrava che con le parole non lo stavamo facendo.
Io ho dato il peggio di me. All'inizio non me ne sono accorto, ma anche quando l'ho notato non sono riuscito a invertire la rotta.
Però poi ti ho chiesto scusa. Però poi ho provato a chiarirmi e a recuperare.
Ti ho detto che anche se ho scoperto di colpo che sai mandarmi in bestia come pochi, io ti voglio e ti voglio bene lo stesso. Ti voglio strana, ti voglio improvvisamente timida senza riuscire a capire ancora oggi il perché. Ti voglio con quella tua risata libera, con quella luce negli occhi. Ti voglio che sussurri il mio nome mentre facciamo l'amore.
Ti ho detto, tra le altre cose, che sono innamorato di te. E tu lo sai, anche se fai di tutto pur di non crederci. Lo sai e sotto sotto mi ascolti. Non continui a scappare e apri le braccia per accogliere me. E così a poco a poco ti sei fatta raggiungere, accarezzare. A poco a poco ti sono vicino e poi siamo sul setto e facciamo l'amore. Eccoli i tuoi occhi, rischiarati dalla luce delle tre del secondo giorno dell'anno.



Sono le 18 passate
e sarà il caso che vada a farmi la doccia. Rovisto nell'armadio sopra il letto in cerca di un cambio, e la prima cosa che incontro è la maglietta arancione che ti ho prestato.
Non avevi vestiti per stare in casa, mi hai detto, ma solo la camicia da notte. Io quasi non ci credevo che tu eri con me in quella casa. Averti in pigiama, o in gonnella, in giacca, in vestito da sera o nuda in cappotto per me non cambiava niente. Avrei fatto l'amore con te tutto il giorno ogni giorno, finché per staccarmi non mi avessi sparato. Avrei fatto l'amore a costo della fame, o del freddo, o della febbre che alla fine ci ha colto, ma non di certo fermato.
Ti avrei cucinato ogni ben di Dio, pur di non veder finire i tuoi baci, avrei comprato e lavato altre mille lenzuola pur di sognare ancora lì sotto. Avrei camminato sulle mani, pur di vederti ancora tirar su la maglietta e scoprire il tuo magnifico seno.
Ho preso in mano quella maglietta, e l'ho annusata. Sapeva ancora di te.

Ti volevo così tanto da annullare chilometri e sognarti già roseo futuro.
Poi di colpo siamo diventati passato senza quasi essere stati nemmeno presente.
Ho perso te e poi la testa. Ma le lenzuola e il tuo odore sono ancora con me.



E' quasi ora di cena,
ma non credo che mangerò. Ti mando un messaggio e ti dico TI PENSAVO. TI VOGLIO BENE. GRAZIE DI TUTTO.

Salvarsi, a costo di soffrire anche tanto.
Salvarsi, e poter partire di nuovo.

lunedì 9 maggio 2011

Waiting for the miracle





Ultimamente, la mia vita sembra sia fatta più di attese che di altro. Probabilmente è sempre stato così. Devi aspettare per tutto, portare pazienza, rassegnarti. Verrà il tuo turno, dicono, e intanto tu aspetti, in questa situazione da racconto di Buzzati, una dimensione ripetitiva, illogica, frustrante.
Ti dicono di star buono lì, che è così che si fa, e tu ti chiedi, in quelle ore infinite buttate nel cesso –ma sarà davvero così? In migliaia di anni, non siamo davvero riusciti a pensare ad un sistema migliore?
E aspetti. 5 anni di superiori, 5 di università (salvo il fuoricorso). E poi? Altro anno di tirocinio. Aspetta ancora 12 mesi, dai. E alla fine? Beh, alla fine c’è un esame. Tre mesi ad andar bene, sennò sei. Ma ecco che fai il tuo ingresso nel mondo del lavoro. Hai aspettato così tanto che quasi non ti ricordi per quale cazzo di motivo hai cominciato, ma finalmente adesso ci sei.
Beh, ci sei, per modo di dire.
Ma non è solo questo. Ci sono attese di tutti i tipi. Alcune ce le creiamo noi, fino a farle diventare delle vere e proprie fughe, perché non ne vogliamo sapere di scegliere. Altre volte ce le impongono le altre persone, i nostri rapporti con loro, la nostra volontà di salvare le cose o mandare tutto affanculo. La tua capacità di attesa misura il tuo coinvolgimento.
Un’amica oggi mi ha detto che si era stancata di aspettare, che voleva “tutto e subito”. Mi è sembrato perfettamente sensato. Ma noi sappiamo bene che non funziona così. C’è una fila da fare, ci sono dei documenti da timbrare.
Un altro amico si impigrisce e aspetta un lavoro che tarda ad arrivare. Io ormai ne ho fatto uno stile di vita. Se non mandassi tot curriculum al giorno (senza risposta, ovviamente), non mi sentirei a posto. Aspetto e aspetto, mentre le stagioni cambiano e la vita presenta il suo conto, che tu abbia mangiato oppure no.
Un altro amico ancora aspetta risposta da quella ragazza che lo fa penare da anni. Aspetta, dice lei. Non le viene in mente che, mentre lui aspetta, le budella gli si intorcigliano, i secondi pesano come anni e gli anni si perdono in un attimo, per non tornare più. Eh no, qui bisogna pensarci bene caro, mica si possono fare le cose in fretta.
E tu aspetti.
Siamo il popolo di quelli in sala d’attesa, ore e ore a fissare un buco nella parete e fare finta di non ascoltare i pettegolezzi del vicino di sedia. Quelli che tornano stanchi solo per essere stati seduti un pomeriggio intero, perché aspettare debilita corpo e anima senza che ce ne accorgiamo.
In quello devo dire che sono sempre stato bravo. Aspettare mi riesce bene. Forse perché da sempre ho questo pilota automatico che innesco in tante situazioni. Originariamente serviva per le disgrazie, ma funziona ottimamente anche con questi momenti fatti di niente. Così, anche se sono un inquieto, riesco a reggere anche l’attesa più lunga e inutile. Lascio che il mio corpo resti lì per me. Le emozioni vanno in stand-by, le sensazioni sono attenuate, le interazioni ridotte a zero. Vado nel mio mondo, qualunque esso sia. Funziona.
Però ora mi sono rotto il cazzo di aspettare. Uno che aspetta è uno che non sa di che morte morire. Non fa per me. Non voglio la vita pianificata secondo per secondo, ma nemmeno montare di guardia in questo turno nella notte infinita. Voglio sapere dove sto andando, che cazzo sta succedendo. Voglio rivedere lei il prima possibile, e non lasciarla più andare via. Voglio trovare questo lavoro, questo posto, questo libro che ancora non nasce.
Voglio tutto e subito, cazzo.
Ma la mia amica di prima (quanti siete oggi con me in quest’attesa!) mi ha detto di non scrivere sempre post tristi, e allora voglio chiuderlo diversamente. Sono incastrato in questa attesa enorme, che cerca da me risposte che non ho, ma che forse posso trovare. Oggi ho capito di avere gli strumenti.
Oggi è stato un primo giorno. Uno di quei primi giorni che aspetti da quando, pivello e pieni di sogni, fai la tua prima fila (altre attese!) in segreteria all’università per immatricolarti. Studi così tanto e così a lungo, che dimentichi quasi che un giorno tutte quelle stronzate, in un modo o nell’altro, ti potranno servire. Aspetti la tesi, poi la laurea, e poi hai dimenticato tutto.
Oggi mi è tornato tutto in mente. Beh, proprio tutto no. Diciamo che mi è tornato in mente il perché ho aspettato tanto questo momento. E quando è arrivato, mi sono fatto trovare pronto.
Non so perché ve l’ho raccontato. Forse mi andava di condividerlo, o cercavo una scusa per offrire a tutti voi del Morgana un giro di tequila giù al bar.
Qui però niente file, promesso.
Alle nostre attese, fanciulli.