martedì 30 ottobre 2012

Vivo abbastanza

Ciao, come stai?

É un po’ che non ci sentiamo, e oggi mi va di raccontarti di come sta andando –anche se non l’hai chiesto, anche se hai le tue cose a cui badare.
Non ci sono grosse novità. Lavoro, casa, qualche guaio nel fine settimana. Non so in quali grandi avventure potrebbe ficcarsi un 33enne con i capelli già bianchi e il fegato che ne ha viste un po’, ma tutto sommato non mi lamento. É un equilibrio squilibrato, che mi sta bene.
Non imparo molto, e forse è questo il guaio. Ho ripreso a leggere, ma quello che leggo non mi basta. Forse sono i libri che sto leggendo, nessuno scrittore che accenda luci nel buio, che ti dia una strizzata ai coglioni. E allora i coglioni sonnecchiano, in questo ciclo veglia-sonno, con orari precisi e in fin dei conti nemmeno troppo stressanti.

Sono nella terra del “take it easy”, della rilassatezza come Stile di Vita, eppure non riesco a lasciarmi andare. Magari la prendo già “easy” di mio, e quando tutti fanno allo stesso modo allora, per spirito di contraddizione, devo scazzare in qualche modo. Sono nervoso in questi giorni. Magari una scopata sistema tutto, magari è la Luna in Toro, magari sono gli spaghetti di soia di ieri sera. Magari è lo scrivere.
Però nonostante tutto, quello non va troppo male. Ogni tanto scrivo qualche poesia, quando torno dal lavoro e mi metto nudo con una penna in mano. Ogni tanto torno in un certo Hotel Morgana. E poi ho cominciato una cosa ma non voglio parlartene ancora, perchè ho paura che diventi uno dei miei tanti progetti lasciati a metà.

La mancanza di organizzazione –altrimenti detta fancazzismo- mi fotte, insieme a questo Tempo del cazzo. Il Tempo. Non mi sembra vero che sono già passati due mesi e mezzo dalla mia partenza dall’Italia. Due mesi e mezzo, cazzo. Ma ci crederesti? Ma com’è che i giorni vanno via così veloci? É una cosa buona, secondo te? Così stringiamo le chiappe, ci scordiamo di tutto e puntiamo dritti verso un periodo in cui avremo prostate come pompelmi e tanto tempo per parlare di quando non avevamo mai tempo?
Questo è il trucchetto col quale ci mandano avanti. Domani, ti dici, sempre domani, o anche dopodomani –e intanto i venti diventano trenta e i trenta quaranta, e prima che te ne possa accorgere sei diventato tuo padre. Ora capisco perchè le rockstar schiattavano a 27 anni.

Tempo a parte, mi manchi, amico e amica. In questi giorni senza ore, in queste ore senza minuti non ascolto molto la mia anima, ma mi sembra di stare mettendo da parte ricordi storielle racconti per te, per tutti gli altri, e allora forse non è tutto sprecato. Ogni tanto mi faccio qualche risata come si deve. Passo troppo tempo insieme ad altra gente, e troppo poco da solo con me stesso. Mi chiedo poche cose, mi faccio sempre meno domande. Ma è così che funziona, come una vecchia auto che non ti chiedi più il perchè e il percome di quello strano cigolìo, fintanto che cammina e ti porta dove devi andare.
Per il resto, l’estate si fa annunciare ogni giorno sempre di più da cieli azzurri da ubriacare l’occhio e da quegli odori che solo questa stagione porta con sè. Ogni tanto mi fermo a riflettere su questi odori, sul quanto sono diversi da quelli della mia estate siciliana, così come lo erano dalle estati romane che passavo tra un esame e l’altro. Piccoli flash nostalgici, che spesso mi fanno apprezzare ancora di più quello che vedo –perchè, anche quando hai le palle girate come me in questo momento, c’è sempre una forma di bellezza intorno, e se ne puoi godere, allora sei vivo abbastanza.

Sì, sono vivo abbastanza: senza troppe notti in compagnia della mia anima, senza grandi progetti se non quello di vedere cosa succede più in là, in questa storia che preannuncia ancora nuovi personaggi e colpi di scena. Ma vivo abbastanza da capire che sono ancora qui combattivo, incazzato e incazzoso, innamorato e pieno di sogni come il primo adolescente che passa. Ho appunti di lavoro e fogli pieni di poesie. Ho una finestra aperta con il giardino ormai in penombra. Ho una birra in frigo e qualcosa da raccontarti per quando ci rivedremo. Ho i miei ricordi che mi tengono sveglio e mi fanno compagnia e mi fanno sorridere. Ho le mie manie, le mie illusioni, le mie guerre che non finiranno mai. Ho da scrivere, da pensare, da fare l’amore. Ho da mangiare e poi restare a guardare. Ho questa indole da vendinuvole che mi è capitata, e non potrei sentirmi più fortunato -quando le parole si mettono in fila e arrivano alla fine del rigo e semplicemente strabordano in quello sotto. Ho dei libri che ti strizzano ancora i coglioni dopo anni e anni. Ho dei bei quadri cazzuti alle pareti. Ho amici vecchi e nuovi, e tutti loro hanno qualcosa di speciale. Ho voglia di non fermarmi e di parlarti di me, di tanto in tanto.
So che non me l’hai chiesto, ma mi ha fatto piacere.

Ma adesso dimmi, amico e amica: a te come va?

domenica 14 ottobre 2012

La pipì alla fiera delle vanità

In conclusione è andata bene, amico mio. In conclusione.
Ma lascia che ti racconti come è iniziata, questa cosa faticosissima, che mi ha costretto ad affrontare briganti sogghignanti di fuori e spadaccini incappucciati di dentro.

Non volevo farlo. Questo è semplice. Forse una piccola parte di me agognava l'idea del successo finale, ma tutte le altre non avrebbero mai scelto liberamente di muovere il primo passo in quella direzione. Non volevo.

L'idea di salire sul palco e parlare davanti a tutte quelle persone di un qualcosa da "grandi" mi metteva agitazione. In fondo a me i grandi non sono mai piaciuti. Sono prepotenti, empi, e soprattutto ipocriti. Del resto, spesso diventano grandi solo per arrogars il diritto di "essere grandi abbastanza per comportarsi come bambini". A questo punto, dico io, tanto vale restare bambini, dirlo chiaro e tondo e mettersi a cercare la strada per l'idola che non c'è.

Comunque alla fine l'ho fatto. Ci sono andato. Ho messo la sveglia che fuori ancora era notte, ho fatto pipì, mi sono lavato e ho mangiato un paio di biscotti cercando di fare ogni cosa come se fosse una giornata qualunque. Ma dopo le mutande e i calzini, ho dovuto fare i conti con la camicia e il vestito. So che hai ben presente la scena di "Into the wild" in cui Chris vede riflessa nello specchio l'immagine del suo io parallelo, o comunque di se stesso in un possibile futuro. Giacca e cravatta, sorriso impeccabile, a fare cin cin con altri uomini come lui. La prima volta che ho provato una sensazione del genere, è stata il primo giorno da agente immobiliare, un paio d'anni fa, quando alle nove di sera ho visto la mia immagine riflessa sul vetro appannato del 310.
Quella mattina, mentre fuori era ancora buio, ho avvertito ancora quella scomoda sensazione. Quel sentirsi non un attore qualunque, che può smettere di recitare e tornare a fare il se stesso di sempre, bensì un attore convinto, trasformatosi nello stesso personaggio per colpa di un incantesimo di cui ha smarrito la formula di annullamento.

Sul taxi, diverse parti di me hanno sperato di arrivare in ritardo e di perdere il volo. In aereo, le stesse hanno addirittura incrociato le dita affinché un qualunque problema mi impedisse di prendere parte all'evento. Inutile dirti che tra le altre parti, ce n'era una che guardava le restanti e pensava tra sé "ma perché tutta questa messinscena?".

Sul taxi, verso il luogo dell'evento, tutte le parti della mia anima e del mio corpo erano invece riunite e alleate tra loro, concentrate al massimo al fine di ordinare alla vescica di contenere la pipì ancora un istante, ancora uno solo, fino al primo bagno lurido di un bar di Milano di fronte l'ingresso per la fiera. Poi l'ho fatta. E da lì in seguito è stata tutta un'altra storia.

Il posto più futurista e digitale del mondo non era altro che l'evoluzione di un mercato rionale, in cui le pescivendole sapevano di chanel numerò 5, ed erano giovani, sexy e volevano venderti pubblicità online al posto della trota salmonata. Avevano gambe affusolate, calze, tacchi alti, e parevano tutte stra-convinte del loro ruolo. Le guardavo e pensavo che se ne avessi fermata una per parlare, non sarebbe stata capace di raccontarmi quale tocco personale aggiunge all'insalata mista.

Pazienza. Io ormai ci ero, ed ero diverso. O forse ero illuso di esserlo, al pari di tutti gli altri pinguini e le altre sexy pescivendole e fruttarole che erano lì.

Sorrisi e strette di mano. Conoscere gente da aggiungere su Linkedin. Rubare dei gadget. Impressionare. Valutare le agenzie in base ai colori dello stand, al numero di persone impiegate per gestirlo, a quello di gadget presenti, alla lunghezza delle gambe delle ragazze che ci lavorano.

Poi lo speech. Inutile che ti dica quante volte l'ho provato. Ogni volta andava bene, ma ogni volta aggiungevo qualcosa e toglievo qualcos'altro. Puoi mettermi anche giacca e cravatta ogni giorno della mia vita, ma non puoi mettermi la stessa espressione sul volto.
Quando è stato il momento della bella, mi sono accorto che non avrei avuto il tempo per cui avevo provato. I minuti erano agli sgoccioli, e l'ultima persona (la collega che avrebbe dovuto parlare dopo di me) non avrebbe avuto nemmeno modo di salire sul piedistallo.
Non dico che le cose stessero andando proprio a puttane, ma diciamo che era una notte un po' annoiata, la strada tirava e c'erano 50 euro nel portafogli...

Serviva un cambio di strategia. Un cambio in corsa.
Così al momento giusto sono salito sul piedistallo e ho cominciato:
"Salve a tutti mi chiamo Edoardo Sorani e in Ad Maiora mi occupo di PR Online. Sarò breve per lasciare spazio anche alla mia collega. Per qualunque domanda o chiarimento, però, resto a vostra disposizione fuori dell'aula al termine dell'esposizione".

Certe volte, prima di decidere quale attore vuoi essere, devi prima scegliere quale spettacolo fare.
Certe volte il massimo è che le cose vadano bene e che vadano come avevi previsto.
Altre volte, invece, le cose non vanno come avevi previsto, ma se vanno bene lo stesso allora hai spaccato di brutto.


lunedì 8 ottobre 2012

Diaz, Freud e noi


Non possiedo una tv e vado al cinema due volte l’anno, ma ogni tanto guardo qualche film che ne vale la pena. Ieri mi è successo con “Diaz – Non pulite questo sangue”.

Premetto che, all’epoca dei fatti, non stavo seguendo il G8 da vicino. Ero distratto dai miei cazzi personali, che, prosaicamente, hanno sempre la meglio su tutto il resto. Però avevo sentito di Giuliani, dell’aggressione alla Diaz, ed in questi 11 anni ho seguito le vicende giudiziarie per quanto la scarsissima rilevanza sulla stampa me lo permettesse.
Il film non aggiunge molto a quello che già si sa, e che altri documentari passati in tv (quando ancora ne avevo una) hanno già mostrato.
Eppure ha l’impatto di un pugno nello stomaco. La telecamera segue diverse storie, racconta senza giudicare troppo, e poi viene investita anch’essa dalla raffica di manganellate di quel 21 luglio 2001.
La potenza di “Diaz” è questa: che, a prescindere dal proprio credo politico, dalle proprie opinioni su quei giorni, sui black block, sui no-global, sugli scontri, su zone rosse e via dicendo, ti trascina dentro quelle quattro mura, in una scuola buia con le pareti che piano piano si tingono di rosso neanche fosse un horror, e ti lascia lì inerme. Ti fa sentire come devono essersi sentiti quei ragazzi, col buio e le urla che crescevano e questa mandria accecata che colpiva tutto e tutti e cominciava a venire verso di te.
No, non dev’essere stata una passeggiata essere stati in quella scuola, quella notte.
Il film ti porta al di là del bollettino da guerra del giorno dopo, dei feriti e contusi (ma feriti quanto? contusi come?), in un panico crescente dove una parte della tua mente ripete che quello è successo realmente, e un’altra parte si rifiuta di crederlo. Si rifiuta di pensare che nel Duemila possa essere successa una cosa del genere.

Molti tirano fuori la storia del poliziotto buono e quello cattivo. Io ho avuto le mie esperienze, specie quando prestavo servizio in un altro territorio senza regole. Diciamo che ne ho incontrati più di un tipo che dell’altro. Anzi, quasi sempre di un solo tipo.
Ma queste distinzioni non m’importano. Come diceva De Andrè, bisogna star attenti a non diventare tanto coglioni da non capire più che non esistono, in fondo, dei poteri buoni. Il potere è (perdonate il bisticcio) sempre una sopraffazione in potenza. Presuppone che qualcuno stia sopra e qualcun altro sotto.
Il potere, una volta che c’è, ha connotazioni divine, sembra che sia esistito da sempre e che c’é perchè ci deve essere, e tutti devono accettarlo. La nostra democrazia si basa sull’esile assunto che chi riceve il potere DAL popolo, poi lo amministrerà PER il popolo.
Certo, come no.
Sono pero' perfettamente d’accordo sul fatto che quelli siano i tutori dell’ordine.
Bisogna poi capire di quale ordine si sta parlando.

Ma qui entra in gioco anche un altro valore del film, non coscientemente ricercato, ma legato invece alla vicenda in sè. Un discorso più inconscio, psicologico, quasi primordiale.
Vedendo il film, si capisce cosa accade qualora le convenzioni e le regole che ci siamo dati non sono più validi, e l’istinto è lasciato a briglie sciolte. Non più incanalato, non più legato alla necessità di trovare una giustificazione, viene fuori in tutta la sua potenza devastatrice. No, l’uomo non è un animale, per fortuna. Ma l’uomo è ANCHE un animale, e al momento giusto questa parte, sepolta sotto strati di superficiale civilizzazione, viene fuori, cieca e sorda, pronta solo ad auto-soddisfarsi.
Sparisce il rispetto, il senso dell’altro, l’etica, l’altruismo, sparisce tutto. Lo spregio per la vita umana del “nemico” contrapposta al farsi forza l’un l’altro, quel violento noi contro di voi, dove noi siamo quelli con la divisa e voi no, e questo in qualche modo ci rende diversi, ci mette sopra - ti fa capire come un fenomeno imcomprensibile della nostra storia recente come l’Olocausto, in fondo, non è poi così incomprensibile. Faceva leva sulla stessa parte inconscia, quella che aspetta sempre nell’ombra, la parte assassina che perfino le persone più miti portano con sè. Ed è questa la parte più sconvolgente: quelle persone che hanno fatto irruzione nella scuola non erano spietati serial-killer, nè torturatori di professione. Erano persone qualunque, che fanno la spesa, pagano le rate del mutuo e tifano per qualche squadra del cazzo. Si sono nascosti dietro la divisa per dare sfogo a quella parte che, solitamente, di solito tengono a bada come tutti noi.
In una scena del film, uno degli agenti discute divertito al telefono con la moglie del prossimo concerto di Ricky Martin –poco prima di dare vita a quella che lui stesso poi definì “macelleria messicana”. L’eclissi della ragione che si è abbattuta su quella sera è solo una mezza verità. Non erano ubriachi, non erano incoscienti: sapevano cosa stavano facendo, e la loro metà oscura, come la definiva Stephen King, stava dicendo loro come farlo.

Il tutto mi ricorda un esperimento di psicologia sociale degli anni Sessanta, dove si voleva studiare l’interazione di alcune persone con ruoli diversi, assegnati a caso. Un gruppo di volontari venne diviso in guardie e prigionieri, che dovevano recitare per pochi giorni, studiati dalle telecamere. Una specie di Grande Fratello, insomma.
L’esperimento venne sospeso prima del previsto. Si era visto che i finti prigionieri, calati nella parte, mostravano segni di depressione e abbattimento, mentre i finti poliziotti avevano cominciato ad essere violenti e vessatori nei confronti dei prigionieri. Ed era solo un gioco.

L’Es profetizzato da Freud si muoveva libero nei corridoi della Diaz, manganellando ragazzi con le braccia alzate, giornalisti, gente che non c’entrava nulla con niente, accanendosi, gridando, quasi ululando. Si parlerà di vendetta, ma quella non basta. Niente di quello che è successo là dentro può avere alcuna giustificazione logica.
In questo senso, è ancora più giusta l’indignazione per il fatto che, dopo 11 anni, i veri mandanti di quello schifo non siano stati ancora identificati e puniti. Loro erano fuori da quelle mura, erano quelli “a mente fredda”, e anzi sapevano bene cosa stavano andando a sguinzagliare dentro la scuola. Sono loro che, in tutta coscienza, lucidi, hanno premuto il famoso pulsante rosso. Sono loro che sono venuti la mattina dopo a spiegarci cos’era successo a telegiornali riunificati, a mostrare le finte prove, a insabbiare, a depistare, a mentire. Sono loro che continuano per la loro strada, impuniti, cambiando leggi e falsificando testimonianze. Sono loro che hanno fatto carriera, mentre i ragazzi della Diaz continuano a fare incubi.
Sono loro, che ci hanno governato con quel famoso potere sceso dal cielo.
Sono loro, che quella sera di luglio hanno scatenato il loro piccolo esercito contro un gruppo di ragazzi coi rasta, un’orda famelica che dimostrava che noi ammiriamo così tanto gli eroi perchè, forse, la vera natura dell’uomo, tolta la scorza, è quella del vigliacco.

No, non siamo tutti come quei poliziotti della Diaz, nè noi nè gli altri in divisa. Ma quella scuola è stata uno schermo su cui è stato proiettato tutto l’odio di cui l’uomo, in fondo a sè, è capace. Come la mettiamo allora con la parabola ottimista dell’uomo buono, dell’uomo che, anche nelle avversità, mantiene valori e affetti? Siamo davvero, come sosteneva il buon Sigmund, bloccati tra uno spirito primitivo, fatto solo di istinto, e un ideale che non potremo mai raggiungere? Cosa porta l’uomo a soccombere a quella parte di sè atavica e senza freni, e al contempo, cosa porta l’uomo a NON cedervi, qualora se ne presentasse l’occasione?
Cos’è che ci permette di guadagnarci quella U maiuscola davanti alla parola “uomo”?

Il discorso è lungo e complesso, religioni filosofie e psicologie ci si sono dedicati con risultati diversi. Questo film toglie un po’ di risposte di mezzo, lasciandoti solo in mezzo a troppe domande. Ti sfila di sotto le certezze sul nostro vivere civile, sulle nostre regole, sulla giustizia e anche sulla Giustizia. Toglie i vestiti a molte idee che avevamo e le lascia lì nude, in piedi contro un muro come quei ragazzi di Bolzaneto.

Perchè allora un persona dovrebbe pure pagare per assistere a tutto questo, per uscirne turbata com’è successo a me e alla mia amica, che ha pianto di vergogna per mezzo film?
Perchè sì, rispondo io. Perchè è importante e, come si suol dire, ci riguarda tutti. Perchè il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Perchè le certezze sono possibili sono dopo miliardi di dubbi, e anche allora sono solo di passaggio.
Perchè non bisogna dimenticare mai quello che siamo, e non dimenticandolo, possiamo lottare per essere persone migliori.
Perchè l’innocenza non è qualcosa che si perde, ma qualcosa che si può solo guadagnare –ma richiede tempo e sforzo.
Perchè uscire turbati dalla sala è segno che qualcosa pulsa ancora in voi, che non vi hanno tramortito l’anima, che siete ancora vivi. Ed è sempre bene controllare, di tanto in tanto.
Perchè l’animale non ha ancora vinto sull’uomo, ma per evitare che succeda bisogna stare sempre in guardia, bisogna riflettere e star male, bisogna portare avanti la propria personale rivoluzione, e non aver paura di ricominciare.
Perchè non deve vincere quell’Italia lì, quell’inconscio lì, quella gente lì.
Perchè essere uomini è un mestiere difficile, come diceva Hemingway, e solo pochi ci riescono.

Per tutti questi motivi, non perdete questo film.
E pensate, perdio pensate, non smettete mai di pensare.




martedì 2 ottobre 2012

Due matrimoni e un funerale


Ci eravamo incontrati all’interno del municipio, pareti di cristallo, aiuole fuori, macchinetta che distribuisce i numeri come dal salumiere, “stiamo sposando la coppia numero… sette”. La nostra coppia ancora non si vedeva, in ritardo come sempre. Dopo strette di mano e parole di circostanza, ci trovammo tutti a guardare fuori dalle pareti di cristallo, ma non c’era niente da vedere. Ci trovavamo a Parramatta, suburra dal nome ameno (e solo quello) a ovest di Sydney. Ricordai che qualche anno prima io e Mauro avevamo lavorato una sera proprio lì, a scaricare casse per uno stronzo e portarle alle macchine dei clienti e sudare nel freddo della sera. Adesso almeno la temperatura era più gradevole.
Nisha e Leon arrivarono più tardi, un po’ trafelati, sicuramente nervosi. Era il loro primo matrimonio, e questa non era solo una battuta: due mesi dopo la puntata all’allegro municipio di Parramatta, ci saremmo tutti ritrovati in India per le nozze vere e proprie, tre giorni di canti, balli e grandi bevute. Nel frattempo, ci accontentavamo di stare pigiati in una stanzetta soleggiata del municipio, su anonime panche di legno, in una stanza che sembrava stuccata da poco, agghiaccianti decorazioni ai muri ed una terribile musichetta in filodiffusione, che sembrava il sottofondo di un pessimo porno dei Settanta.
La celebrante –una donna filippina con occhiali spessi e un senso dell’umorismo stantìo- arrivò poco dopo, chiese allo sposo se voleva sfruttare quell’ultima occasione per darsela a gambe, chiese alla sposa se si rendeva conto che stava dando un bacio d’addio al suo nubilato, dopodichè cominciò a recitare tutto il pippone australiano di leggi, obblighi e doveri. Curioso, ma lì dentro di australiani ce n’erano ben pochi. Mentre la celebrante andava avanti con battute che –poco ma sicuro- rifilava ad ogni coppia, pensavo a quale forza invisibile aveva portato tutte quelle persone, arrivate dai quattro angoli della Terra, ad essere proprio lì in quel momento, per quel matrimonio. Cosa aveva portato me, italiano, a dover fare, tra qualche mese, il testimone d’anello di un ragazzo indiano, nel torrido inverno di Bombay? Forse la stessa trama nascosta che aveva portato loro due, provenienti da regioni, famiglie, caste così diverse, ad unirsi in matrimonio in un caldo pomeriggio di primavera in Australia.
Strinsi la mano della mia ragazza australiana pensando a questa forza oscura, alle coincidenze, al caso e a quel che di buono ogni tanto ne veniva.

Arrivai al cimitero di MacQuarie in ritardo. Colpa del traffico. Parcheggiai il motorino, poi andai a cercare un bagno. Mi sembrava una vita dall’ultima volta che avevo fatto pipì.
Aspettai che una donna cinese e suo figlio piccolo finissero e mi fiondai dentro. Dopo, attraversai più sollevato i vialetti del cimitero. Più sollevato fisicamente, almeno.
Non ero mai stato in un cimitero australiano, nè in un funerale. Il cimitero era ben curato, con tombe semplici e tenute in buono stato. C’erano vialetti ed indicazioni e perfino dei chioschi per comprare delle bibite o per pranzare. L’erba era tagliata, i fiori sempre freschi. Non immagineresti a cosa serve quel posto. La Morte ha tutto un altro modo di presentarsi, nei quartieri alti. Non sembra neanche Morte, solo un riposo temporaneo.
Una donna vestita di bianco –la divisa ufficiale di quella particolare agenzia funebre- mi guidò fino all’ingresso della cappella, mi fece firmare un registro e poi accomodare. La cappella era piccola, abbastanza nuova. L’interno sarebbe potuto essere confuso con quello di un villino sul mare. C’erano finestre aperte dalle quali entravano sole e sguardi di chi non aveva trovato posto all’interno. Anch’io restai in piedi, in fondo. Quella cerimonia nella cappella, già nel cimitero, era molto diversa da quelle a cui ero tristemente abituato in Italia. Mi ricordava molto quelle nel film americani, e solo allora mi resi conto di quante finte morti avevo visto nel corso della mia esistenza da spettatore.
Quella però, anche se non sembrava, era una morte vera, ed una di quelle più difficili da digerire.
Non c’erano inni religiosi, solo discorsi di chi conosceva bene la defunta. Sue, la madre della mia compagna, parlò con calore, raccontò storie e aneddoti, riuscì perfino a far sorridere teneramente alcuni nella stanza. Lei conosceva la defunta da 43 anni. Non riuscivo nemmeno a immaginare una tale quantità di tempo.
Alla fine della cerimonia la celebrante ci ringraziò e poi fece partire, per una strana ironia, “Viva la vida” dei Coldplay, la canzone preferita della morta, mentre le persone sfilavano via verso l’uscita. Mi passarono di fronte i figli piccoli in lacrime, poi la figlia più grande che sorrideva a tutti come se fosse ad una festa, come se fosse ovunque ma non al funerale della madre, e sinceramente mi si spezzava il cuore ad immaginare il momento nel quale sarebbe uscita da quello stato e avrebbe capito cos’era successo.
Uscì dalla cappella anche Sue, in lacrime, ed io le passai accanto senza dire niente. Non c’era mai niente da dire quando moriva qualcuno, e ancora di meno quando si trattava di suicidio. L’aria era già satura di tutte quelle cose che tutti avrebbero voluto dire ma non avevano detto perchè pensavano ci fosse ancora tempo, e di tempo ce n’era per tutti tranne che per la persona che aveva deciso di andarsene così.
Avevo le mie idee sul suicidio, idee che in quella mattina di sole così ferocemente bella sembravano ancora più inutili del solito, così come sembravano inutili un bel po’ di altre cose mentre la costosa cassa di mogano veniva portata da qualche altra parte e noi ce ne andavamo verso la zona rinfreschi, pieni di domande che non avrebbero mai avuto risposta.
Non mi era mai capitato, ad un funerale, di vedere in tutti, indistintamente, quell’espressione, a prescindere dal legame che avessero con la defunta –perchè una morte del genere ti spaventa e ti sgomenta, ti svuota, ti fa chiedere perchè anche se non ci parlavi da anni, ti smuove le certezze e ti lascia più nudo, più indifeso, più solo. Come quel cimitero e quella cerimonia, pensavo che certe cose succedessero solo nei film. Mi sbagliavo, ovviamente.
Ci sbagliavamo tutti in un bel po’ di cose, e nel notarlo ci sentivamo più umani.
Dopo la cerimonia il rinfresco, dove gente sconosciuta parlava e ingurgitava panini e tartine, e già l’atmosfera si rilassava ed io dovevo tornare al lavoro e montavo sul motorino perchè la vita va avanti, come si dice, e non ho mai capito se questa cosa dovrebbe sollevarci oppure farci incazzare ancora di più.

Quattro ore di viaggio in giacca e cravatta non le avevo ancora fatte, ma quel matrimonio era tutto una follia improvvisata. Non saprei come altro definire una cerimonia alla quale vengono invitati due tizi conosciuti (e per pochissimo tempo) dallo sposo 6 anni prima dall’altra parte del mondo, e che non si vedevano da allora. Ma intanto quei due tizi, cioè io e Mauro, correvamo (limiti australiani permettendo) verso sud, superando campi sconfinati e cittadine squallide e cieli blu fino a parcheggiare nel motel che avevamo prenotato a Jervisa Bay. Balzammo subito su un taxi, l’autista un barbabianca che parlava solo di football e rugby, e ci inoltrammo nel parco nazionale di Bodeeree. Il terreno si lavorò le sospensioni per una ventina di minuti tra gli alti eucalipti finchè non sbucammo verso una radura. Pagammo una cifra spropositata, scendemmo e alla fermata trovammo 3 canguri ritti sulle zampe, che ci fissavano in silenzio tra l’incuriosito e l’annoiato. Ne avevo visti molti, ma mai così da vicino. Filammo verso il luogo della cerimonia, un piccolo palchetto costruito tra gli alberi, proprio di fronte al lago. C’erano troppe poche sedie per gli ospiti, e tutti ci guardavamo strano. Non ci conoscevamo, e volevamo lasciare le cose come stavano.
Lo sposo arrivò. Io e Mauro non lo riconoscemmo, più invecchiato dei sei anni trascorsi, segnato come non ci aspettavamo. Ci sembrò di abbracciare un’altra persona, e lui era troppo nervoso per colmare quel gap tra noi. Si avviò pallido verso la celebrante e restò lì fissare il vuoto e a strofinarsi le mani. Un fastidioso vento cominciò ad alzarsi, giusto in tempo per l’arrivo delle damigelle d’onore e delle loro gonnelline gialle, così leggere nella brezza. Dopo l’arrivo della sposa, la gente restò a lungo incerta se sedersi o restare in piedi. Io e Mauro ci sedemmo e assistemmo alla mia terza cerimonia in meno di una settimana. Ecco quello che facevamo tutti: compleanni matrimoni anniversari, sempre a celebrare la vita più che a viverla e basta. Avremmo portato poi bomboniere e foto ricordo al Padreterno, per dimostrare che avevamo seguito il copione. Che fine aveva fatto la spontaneità? Forse era stata risucchiata tra una lista di nozze e il servizio fotografico in bianco e nero.
Ma questi sono pensieri del cazzo che mi vengono sempre in queste occasioni, e che comunque svanivano quando vedevo il sorriso solare della sposa, che guardava il nostro amico come solo una donna innamorata riesce a fare. Erano tutti e due innamorati, i genitori erano felici, gli amici applaudivano. Se ne sbattevano anche del vento che si stava alzando e che rendeva appena udibili le loro parole, costringendo la cerimonia ad una chiusura veloce.
Il vento, scoprimmo dopo, sarebbe stato l’ultimo dei nostri problemi. Stipati in un tendone trasparente battuto dalla tempesta, saremmo stati parcheggiati al nostro tavolo, seduti con perfetti sconosciuti, per otto ore e mezza di fila, intervallate da un’unica portata (peraltro nemmeno commestibile). In compenso, con tutto quell’alcol che ci avrebbero dato, la diffidenza della cerimonia sarebbe passata e tutti saremmo diventati amici eterni, fino ad addormentarci sul bus di ritorno coi canguri ancora piantati davanti alla fermata, a non spiegarsi perchè facessimo quello che facevamo.
Neanch’io sapevo perchè facevamo quello che facevamo. Ci avrei pensato anche il giorno dopo, sdraiato nella meravigliosa spiaggia bianca di Hyams Beach assieme a Mauro, un mare come nelle cartoline, il sole tutto per noi, i delfini che ci nuotavano davanti e la possibilità di giocare con discorsi seri e discorsi cazzoni, di permetterci pensieri profondi alternati a frescacce paurose, così come ci potevamo permettere di lamentarci di una cerimonia dove si era mangiato poco, dopo soli pochi giorni da un funerale per suicidio, perchè la vita era anche questa, la nostra sopravvivenza legata alla nostra capacità innata di andare avanti un metro alla volta, di concentrarci sulle piccole onde dell’esistenza per non restare travolti dai maremoti che ogni tanto, lo stesso, ci colpiscono. Pensare all’acqua fredda della doccia mentre esiste la fame nel mondo. Non è cinismo, se c’é sia l’uno che l’altro. Piuttosto, lo vedo come riconoscere la nostra limitatezza come esseri umani, con la ragione che non arriva a capire ed invece il cuore che arriva a sentire fin troppo, così tanto da non poterne più.
Allora in quei momenti devi pensare che tutto passa, esattamente come passerà quel sole fantastico là sopra e come sono passati problemi che sembravano infiniti. Devi pensare che, come Nisha e Leon, ci siamo trovati tutti per caso su questa Terra, ed è una gran cosa riuscire e cavarne qualcosa di positivo di tanto in tanto. Devi pensare che, come il nostro amico di 6 anni fa, invecchiare forse assume un senso se hai una donna che ti ama davvero accanto. Devi pensare che, quando sei morto, lo sei per un bel pezzo, e allora devi prendere tutto quello che capita, rinunciando a capire tutto, a spiegare tutto, a consolare, a curare.
Puoi solo dare delle pennellate che facciano capire, puoi aiutare, non mollare, puoi non smettere mai di provare. Puoi amare.

Non smettete mai di sporcarvi le mani con la vita.
Non ve ne pentirete.