martedì 9 aprile 2013

Risalire la corrente


É ormai la sedicesima volta che faccio questo viaggio tra Italia e Australia, ma la sensazione resta sempre quella: ti sembra sempre di risalire una corrente, come un salmone ostinato che ancora non ha capito da che verso andare. Una corrente uguale e contraria, a volte anzi più forte, ma sempre contraria. Che lo facessi per piacere o meno, avvertivo che c’erano sempre mille ragioni per non farlo, i soldi, il tempo, la fatica, il buonsenso che mi è sempre mancato, quel buonsenso che ti vorrebbe solo da una parte o dall’altra, e tutte queste ragioni formano una corrente che ti vorrebbe portare a fondo valle, giù, sempre più giù, a riposarti e lasciar perdere tutto quel nonsenso.

Sono in attesa per gli imbarchi a Fiumicino. Il trucco è sempre quello: prenotare un posto in fondo all’aereo, così sarai tra i primi a salire. Passo davanti a quelli che erano in coda da più di mezz’ora mentre io mi leggevo il mio Murakami, trattengo l’istinto di fare il gesto dell’ombrello e penso vagamente a che drink ordinare una volta salito a bordo.
In realtà ho da poco preso l’ultima birra e mangiato l’ultima pizza con Edo, ultimo (in senso temporale) tassello di quel puzzle lungo 3 settimane che aveva messo insieme parti di me che pensavo fossero destinate a rimanere smembrate e a terra come mutande sporche. Era stato un mosaico complicato da sistemare, ma qualche pezzo aveva cominciato a trovare il suo posto. Era stata notte per così tanto tempo che quando avevo visto il sole di nuovo per la prima volta mi era sembrato uno scherzo. Pensavo che la Vita fosse venuta a prendermi in giro ancora una volta.
Diciamo che avevo i miei buoni motivi per essere diffidente.

Salgo a bordo, mi siedo accanto ad una coppia cinese e apro la mia copia gratuita di “Repubblica” per prolungare quel distacco e portare con me ancora un po’ di quel sole che sono riuscito a strappare via coi denti e con le unghie. Quel sole che persone pazienti, deprivate di sonno e riempite di birra fino alle orecchie, mi avevano regalato senza chiedere niente altro in cambio che una mia uscita sul balcone. Ed io ero uscito, e mi ero riscaldato a quel sole, mi ero acceso una sigaretta e avevo pensato a tutto e a niente e per la prima volta in mesi mi ero sentito umano.
Quel sole che ormai viveva in piccole cose, nelle facce che portavo con me, in frasi dette tra una birra e l’altra, nel sorriso di una hostess che mi guarda come se ci conoscessimo da una vita e mi dice, sapevo che avresti ordinato un’Heineken, come se avessimo appena scopato.
Quel sole che scorgevo nello specchio del bagno dell’aereo, tra una ruga ed un capello bianco. Il sole di chi non si è ancora piegato completamente alla notte.

All’aereoporto di Dubai ci muoviamo in file ben definite, salmoni assonnati che non sono neanche a metà del cammino e quasi vorrebbero lasciar perdere e farsi trasportare dalla marea. L’alba si affaccia dalle grandi vetrate mentre un po’ di notte evapora dai nostri vestiti e dalle nostre palpebre pesanti. M’infilo nella sala fumatori dove la gente si aggira silenziosa avvolta nel fumo, quasi fosse una cosa da nascondere, e nessuno si guarda negli occhi ma fissa solo un punto indefinito, che è quello dove tutti noi abbiamo perso qualcosa –che sia la coincidenza, le ore di sonno o qualcos’altro.
Intanto mi bussano ancora quelle facce, la mia gente, come un cane da guardia impiantato nel cervello. Continua, mi dicono, mentre io dò un’altra pinnata e risalgo quel tanto che basta per trovarmi in fila per il prossimo volo, l’ultimo, quello per Sydney.

A Sydney non c’è nessuno ad aspettarmi all’arrivo. Passo la dogana e vado fuori a fumarmi una sigaretta. É l’alba, il cielo comincia a svelare il suo blu ancora incerto. Rieccomi tornato da dove sono partito, penso, con tre file dei pezzi più grossi. Fumo e le facce di tutti quelli che ho visto a Messina e Roma, le loro parole che per me sono state trasfusioni di sangue dopo un’emorragia, si trasformano in pura e semplice energia, in vibrazioni di basso, in rabbia e fame, in qualcosa che per niente al mondo vorrei mai più abbandonare.

La sensazione resta la stessa: quella di risalire, come salmoni piegati dagli eventi, una corrente che vorrebbe solo trascinarti giù. Una corrente forte, inaspettata, violenta. Il primo istinto sarebbe di seguirla.
Ma poi, come il più ostinato dei salmoni, riprendo faticosamente la mia risalita. In culo la corrente, mi dico, non mi farò portare giù. Non oggi, e nemmeno domani. Dovranno aspettare ancora un po’ prima di vedermi preso e servito in tavola. Con l’energia di quelle facce e di quelle parole, riprendo il mio cammino.
Un cammino doloroso, lungo, incerto, e solo mio.
Mio, e di quelle facce.

Prendo il treno, trascino le valigie sotto il sole, arrivo a casa. La trovo svuotata per metà, come se mi avessero derubato.
Poi capisco che no, non mi hanno rubato tutto. Con quello che mi è rimasto mi infilo sotto la doccia, mi lavo, mi vesto ed esco, diretto al lavoro, al sole, ad un nuovo giorno da salmone.