martedì 22 ottobre 2013

Gentleman

Come alcuni di voi sapranno, ho scritto tempo fa un romanzo (non pubblicato), che ho chiamato “Latinoaustraliana”. Uno dei personaggi di quel libro si chiamava Rett.

Da ieri, Rett non c’è più.
 
Ho ricevuto la notizia in una bellissima sera d’estate anticipata, uno di quei momenti in cui l’anima viene fuori a prendere fiato pure lei dopo le botte dell’inverno. Subito dopo il messaggio, l’estate è sembrata un’altra illusione di questo 2013 dagli infiniti freddi. 
La notizia mi ha riportato in mente estati diverse, lontane nel tempo, le mie prime in questo Paese. Così lontane da sembrare figure di foto da guardare con nostalgia e stupore per gli anni che si sono messi in mezzo tra noi e quello che eravamo.
In quell’attimo ho sentito la violenza di una parte della mia vita che si chiudeva per sempre, e che ho amato più di quanto sospettassi.
 
Sembra ieri che sentivo Rett bisbigliare con la figlia dopo il mio primo incontro con lui e, dopo avermi studiato un po’, decidere che io ero un “fine, young gentleman”. Ancora oggi, è uno dei complimenti a cui tengo di più (e pazienza per quel “young”, che fa ridere ogni giorno di più).
Sembra ieri vederlo bere impassibile quel famoso Grand Marnier all’arancia invecchiato 22 anni e versarcene ancora mentre io e Mauro eravamo già sotto il tavolo.
Sembra ieri che lo sentivo ripetermi che, quando uno stringe la mano all’altro, lo deve fare con decisione, non con forza. Capii che non c’era ostentazione in quel gesto, ma solo la volontà di sapere con chi aveva a che fare.
Rett aveva avuto, come tutti, la sua dose di esperienze che gli avevano fatto capire che, come diceva Hemingway, essere uomini è il mestiere più difficile, e pochissimi ci riescono. Rett, il suo lavoro, lo faceva discretamente bene.
 
E come nei racconti di guerra di Hemingway (guerra che Rett aveva solo sfiorato, ma in qualche modo gli era sempre rimasta dentro), sapeva che questi uomini sono eroi imperfetti, pieni di paure, umani.
Rett aveva commesso la sua parte di errori, che adesso il suo essere nonno mitigava, nella speranza che, alla fine, potesse farsi due conti col sorriso sulle labbra. La coscienza delle sue limitazioni lo portava ad essere quello era: un essere umano più che decente, una persona buona e gentile come poche, un gentleman come è difficile trovarne più. Un uomo all’antica, ma nel senso buono.
 
La notizia mi ha riportato quel senso di vuoto che ho provato altre volte. Non per niente, una delle ultime cose che aveva fatto mia nonna prima di finire in una stanza d’ospedale dalla quale non sarebbe più uscita, era stata quella di guardare delle foto che avevo fatto nel mio recente viaggio in Australia. Nelle foto c’era Rett, la sua casa, il giardino che tanto amava. Mia nonna indicava le foto alla vicina e diceva –Visto? Quello è il mio consuocero. Un giorno andrò anch’io lì in Australia, a vedere quei campi, quel verde, quel sole.
Non aveva mai incontrato Rett di persona, e anche se lo avesse fatto, non si sarebbe potuti scambiare nemmeno una parola a causa della lingua. Eppure sentiva che era, come lo definiva lei, un “bravo cristiano”.
Forse perchè lo era anche lei.
 
Quando lei se n’è andata, ho sentito questo vuoto. Una mancanza non solo, ovviamente, della persona, e dei miei ricordi con essa. Era come se un pezzo di storia, con la esse sia minuscola che maiuscola, se ne fosse andato per sempre. Come se quelle storie che lei amava raccontare più e più volte, mentre fumava di nascosto seduta sul dondolo, si sarebbero perse con lei.
Quelle mancanze che ci lasciano più giovani, ma nel senso più triste del termine: con tutto il futuro che ci pare, ma senza più un passato che ci dica chi siamo.
Lo stesso mi è successo ieri. Rett, oltre alla persona, per me rappresentava anche una grossa parte di quell’ “australianità” che ero andato a rincorrere dall’altra parte del mondo. Mi aveva messo a mio agio, mi aveva accettato e mi aveva raccontato le sue storie.
Mi ricordo ancora ad aggirarmi tra le stanze della sua bellissima casa in campagna, e trovare negli scaffali dei libri che avevo letto, e altri che avrei voluto leggere. Se la mia lingua e il suo udito lo avessero permesso, avremmo passato giornate intere a discutere di guerre mondiali, economia,  politica e barzellette zozze.
Ma quello che ci siamo detti è bastato, ed ha fatto sì che lui continuasse a vivere, appunto, nel personaggio di Rett e nel mio mondo.
 
L’ultima volta che l’ho visto è stato ad una cena, parecchi mesi fa. Era già malato, e la consapevolezza di questo rendeva le sue storie meno nitide e al tempo stesso più urgenti. Il tempo assumeva la sua tragica importanza. Io lo ascoltavo e pensavo che è bello quando, nella vita, ci capita di incontrare una persona con l’anima buona. Una persona di stile, dotata di umorismo, che sapeva come intrattenere chi gli stava di fronte, e che amava tutto di questa terra che era stata generosa con lui in maniera alterna.
 
Adesso lui non c’è più e noi ci troviamo ad uscire da questo maledetto 2013 un po’ più soli e poveri di prima. Le sue risate mi sembrano una danza estrema con la Morte, ma non è forse quello che facciamo tutti? Far finta di niente, sedurla, cercare magari di metterle la lingua in gola? É un gioco, e lui ha saputo giocare. Forse questo conta alla fine.
Questo, e le storie che possiamo raccontare.
No, forse non usciamo così poveri da questo anno. Abbiamo le loro storie, la loro ispirazione, quello che sono stati, per spingerci ad essere anche noi eroi imperfetti e mortali, grandiosi e stupidi, ad arrivare fino a domani, fino al 2014, fino al futuro.
Io, da parte mia, non smetterò di ascoltare e raccontare. Mi sembra l’unico modo.
Buon viaggio.
 
Questa è per te, Max.
 


 




 

 

domenica 13 ottobre 2013

Le nostalgiche libertà del romano incatenato

Questo traffico mi destabilizza. Come ogni volta. Penso che dovrei premere il piede sull'accelleratore, sollevarmi da terra, sorvolare su tutto e tutti, chiudere per un solo istante gli occhi, riaprirli e ritrovarmi in una distesa di terra libera da ostacoli.
Ho bisogno di aria pura. Ho bisogno di rilassarmi. La verità però è che lì dove sono posso solo aspettare; posso solo tentare di non concentrarmi su quel blocco umano fatto di armature metalliche, che si muove in massa come fosse un unico corpo. Ogni membro è strettamente connesso e dipendente da quello che lo precede. La Pontina ha l'inquietante potere di rendere queste armature metalliche un unico corpo amalgamato e farne parte può significare impazzire, perchè toglie il respiro.
Mentre lentamente mi avvicino a Roma, fuggo con lo sguardo da quella coda devastante e scorgo all'orizzonte il principio di un tramonto. Ricordo il mio orgoglio per la libertà conquistata negli ultimi anni e penso con cosa si identifica questa libertà: sorseggiare lentamente un cappuccino al tavolino di un bar in via Mazzini a Ferrara, sorseggiare un caffè shakerato al bar della Feltrinelli che si affaccia su largo Argentina a Roma mentre si conversa di letteratura o fare colazione davanti al mare alla Mirilla di Càdiz con un libro in mano.
Eccola qui la libertà: avere semplicemente la possibilità di distendere i sensi con un caffè caldo tra le mani e un buon libro da leggere, senza fiati sul collo. Lontana anni luce dalla realtà in cui mi trovo. Il traffico che mi rallenta in verità mi incatena.
Il rosso del sole al tramonto si infuoca e squarcia quel nostalgico cielo blu notte, smantellato da nubi chiare gonfie d'umidità. E' un vero spettacolo. Respiro profondamente e cerco di rilassarmi.
Roma è vicina. Ne scorgo l'Eurosky accanto all'edificio a cupole del centro commerciale più grande d'Italia (come ogni nuovo centro commerciale, d'altronde), eppure so che Roma è ben altro. Roma, quella vera, è sempre lontana.



mercoledì 9 ottobre 2013

Una mattina ti alzi e ci vedi

Lo so che sembra assurdo, ma ci ho messo mezz’ora a fare la foto che vedete qui sotto. Un po’ perchè, odiando l’autoscatto, non me ne piaceva nessuna. Un po’ perchè –e l’ho realizzato solo alla fine- queste erano le prime vere foto che facevo senza la benda.
E quando l’ho capito, ho capito anche che mi andava di scriverne –e così, eccomi qui.

Una delle prime volte in cui ho realizzato questo ritorno alla “normalità” è stato giovedì scorso. Stavo tornando a casa, ho attraversato la strada e una macchina mi ha suonato perchè non ero stato veloce abbastanza ad attraversare. É come quando noti un dettaglio minuscolo ma diverso da quello al quale sei abituato: nessuno mi aveva suonato il clacson per mesi. Portavo una benda all’occhio e tanto bastava per mettermi nella categoria disabili. La gente si scostava al mio passaggio, e si scusava mille volte se per caso mi sfiorava inavvertitamente. Quando incrociavo qualcuno per strada si facevano tutti da parte, quasi vergognosi. Mettevo in imbarazzo gli adulti e incuriosivo i bambini –gli unici capaci di parlare ancora con sincerità.
Dopo aver attraversato, ho pensato: forse è andata. Andata con le domande delle cassiere al supermercato, andata con i colleghi che mi chiedevano a giorni alterni come mai non potessi guidare con mezzo campo visivo fuori uso, andata con i ritorni la sera tardi indovinando solo le ombre, andata con gli sguardi strani e peggio ancora compassionevoli, andata con i genitori che ti chiedono come va e quando dici bene non ti credono, andata andata andata. Forse.
Ero tornato con enorme fatica a quello che avevo dato sempre per scontato, ed era una sensazione indescrivibile.

Dico “forse”, e sono cauto anche adesso che sto scrivendo con due occhi che non fanno più troppa fatica insieme. A parte dettagli importanti, sento di essere sulla strada giusta, ma con questo 2013 non si può mai sapere.
E anzi, a pensarci adesso sembra un incubo fatto da qualcun altro, pieno di gente senza vergogna, dolore a tonnellate, stanze d’ospedale, attese, buio e colpi di scena all’ultimo momento. Uno di quei film che ti fa stare col magone fino in fondo, e anche se dovesse avere il finale più bello che c’è, col cazzo che lo vuoi rivedere mai più.
Ma ci sarà la scrittura, per quello. E quando questi mesi assurdi e atroci si tramuteranno in parole, potrò sentire chiudersi queste cicatrici da far scaldare sotto il sole.

In questo momento, più che a questo anno del cazzo, voglio pensare alle persone che mi hanno portato fin qui, che hanno contribuito affinchè io mi trovassi seduto su questa sedia a sorseggiare Cooper’s con un sorriso scemo sul volto barbuto.
Lo dedico a voi, come ho sempre. Non sapete quanto avete fatto ma lo avete fatto, e ve ne sarò per sempre grato.
E visto che già mi immagino il compare Mauro scuotere la testa, mi rassegno e dico, ok, lo dedico anche a me. Gli autopompini (come gli autoscatti) non mi piacciono granchè, ma questa è la mia stanza nel Morgana e sono di buonumore, quindi che cazzo, sì, ci ho messo il mio.
Domani saranno 5 mesi esatti da quell’operazione. Mi rivedo quel giorno e non mi sembra reale –come non fosse mai successo. Ma poi ogni tanto rivedo quella scena in sogno, e so che è accaduto davvero, ed è accaduto a me.
Mi rivedo in terapia intensiva e poi fuori, da solo, a tirare avanti debolissimo e privo di un occhio, a gestire casa e lavoro e una serie di botte dell’anima. Mi rivedo a pisciare liquidi di contrasto e a chiedermi se ne sarei mai uscito. Mi rivedo ad essere ricoverato nuovamente, e nuovamente a sentire tutti i muri della mia anima cedere di schianto lasciando solo una confusione di mattoni e paure. Mi rivedo a dover ricominciare ancora una volta, senza sconti nè favori, contando su delle forze che non sospettavo nemmeno d’avere.
Mi rivedo e penso –ma come cazzo ho fatto?
Ed è allora che mi viene su qualcosa che non conoscevo molto bene, e che ho finito per identificare con l’orgoglio per quello che sono.
E quello che sono, oggi, mi sembra una gran cazzo di bella cosa.

Ho pensato spesso a questo momento. Il momento in cui mi sarei svegliato, avrei aperto gli occhi e sarei tornato a vederci. Lo confesso: ho pensato che avrei pianto. Pianto di sollievo, per tutti quei pianti che questi mesi non sono riusciti a farmi fare. Come a dire –finalmente, cazzo.
E invece no. Non è stato un momento da film. Semplicemente una mattina mi sono svegliato e ho deciso che avrei aspettato un po’ prima di mettere la benda. E nonostante questo non sbattevo sui muri e non cascavo per terra. Figo, pensavo (capita, quando la normalità diventa un traguardo insperato).
Ho fatto colazione, mi sono lavato, preparato per il lavoro –e continuavo a non avere la benda.
Allo specchio, mentre mi accorciavo la barba ancora con qualche difficoltà, ho sorriso e mi sono detto: allora è così? Una mattina ti alzi e ci vedi di nuovo.
Sembra niente, e invece è tutto.
Perchè non parliamo solo di diottrie. Qui davvero una mattina mi sono svegliato ed ho visto di nuovo. É stata come una prima volta, come reimparare a camminare o a fare l’amore. Era una conquista che mi sembrava incredibile, e ne assaporavo ogni attimo.
Per strada sorridevo e la gente non capiva come mai. In fondo ero come loro: due occhi, un naso, una bocca. La gente non sapeva molte cose. Io sapevo che una mattina mi ero alzato e ci vedevo, e potevo finalmente vedere quella primavera che sapeva già d’estate, e che mi ero ripromesso di godermi una volta che quel terribile, quasi fatale inverno sarebbe finito.

Ed io sono qui, in una calda sera di primavera, a dire che ce l’ho fatta, che l’inverno è finito ancora una volta ed io sono qui, a festeggiare questi 5 mesi all’inferno con un paradiso da niente fatto di odori, pace, birre vuote, mie parole e una pausa fuori dall’abisso.
A volte una mattina ti svegli e ci vedi, e quello che vedi ti piace fino a riempirti il cuore, ed a sentirti grato per esserci ancora e porterlo raccontare.
Non smettete mai di vedere.
Buona primavera.