giovedì 16 marzo 2017

In marcia (racconto)


Il cielo era sempre di un grigio malato, irreale, tanto da sembrare una cupola, o una di quelle bocce con dentro case disegnate e neve finta.
Invece delle case disegnate, la colonna si muoveva in un panorama spoglio, brullo. Pochi alberi si frapponevano tra il gruppo che avanzava e l’orizzonte, che andava a perdersi dove l’occhio non poteva arrivare. L’aria stessa sembrava in attesa, come se dovesse piovere da un secondo all’altro ma poi non pioveva mai –e di quella pioggia tutti, per qualche motivo, sembravano aver bisogno.
Bill Myer si muoveva in un punto qualunque di quella colonna, circondato da altre persone. Molti tenevano lo sguardo basso, senza parlare. Non si poteva vedere la fine di quella colonna, nè in un senso nè nell’altro. Per quanto affollata fosse, la gente stava a debita distanza l’uno dall’altra, senza sfiorarsi mai, mantenendo un passo costante che col tempo diventava quasi ipnotico.
Bill si sentiva confuso. Non sapeva da quanto si trovava in marcia. Vedeva le teste chine intorno a lui, tutte dirette verso una meta che ignorava, e gli sembrava di essere stato scaraventato lì all’improvviso, mentre era impegnato in qualcos’altro. Allo stesso tempo, per quanto dalle cause ignote, quella marcia gli sembrava l’unica attività possibile. Se gli avessero detto che aveva trascorso tutta la sua vita in marcia, Bill Myer avrebbe finito per crederci.
Accanto a lui camminava un uomo tra i cinquanta e i sessanta. Aveva uno sguardo pensieroso, come perso altrove mentre continuava a marciare senza fermarsi. Indossava quella che ad una prima occhiata sembrava un uniforme –non era così anche per gli altri?- ma guardando da vicino, risultavano essere comunissimi vestiti da tutti i giorni. Nel caso dell’Uomo Pensieroso, era un vestito comodo e un po’ datato, con cravatta a tinta unita. Anche l’Uomo, come Bill, aveva scarpe inadeguate per quelle strade fangose e dissestate, eppure nessuno rallentava mai il passo.
Bill pensò di chiedere qualcosa all’Uomo, ma si trattenne. Intorno c’era troppo silenzio. Si sentivano solo i passi di migliaia di uomini e donne che marciavano. Solo di rado qualcuno parlava, ed erano sussurri che si perdevano nell’aria rarefatta. E poi, chiedere cosa? La prima cosa che veniva in mente a Bill era chiedere chi avesse vinto la guerra (che guerra?). Non sapeva nemmeno lui il perchè, ma gli sembrava l’unica domanda plausibile, e anche la più stupida. Il fatto che quella colonna infinita si stesse allontanando da luoghi lontanissimi, dai quali si alzavano dense nuvole nere, faceva già indovinare la risposta. A Bill vennero in mente quei documentari dove si vedeva la popolazione che abbandonava le città dopo che queste erano state sconfitte e conquistate. Di solito in quei documentari (quando li aveva visti?) la gente portava con sè tutto quello che poteva. Qui, invece, le persone non avevano niente se non i vestiti che indossavano.
Bill guardò ancora le persone intorno a sè: per la maggior parte sembravano molto anziani (alcuni, a dire il vero, non apparivano in grado di continuare quella marcia ancora a lungo; eppure non rallentavano mai il passo). Guardando meglio, però, Bill distinse persone di tutte le età e razze. C’erano molti giovani, persino dei bambini. Quelli troppo piccoli venivano portati in braccio dagli adulti –non era chiaro se fossero loro parenti o meno.
Non sapendo cosa fare, Bill continuò a marciare in silenzio insieme agli altri. Spirali dense di fumo si alzavano lontane all’orizzonte. Ogni tanto sembrava di scorgere qualche aereo nel cielo, ma gli sfollati non alzavano neanche la testa. Bill pensò che avrebbe dovuto avere fame o sete, o anche solo essere stanco per tutto quel camminare. Non provava niente di tutto questo. Fu allora che si decise a parlare con l’Uomo Pensieroso.
“Salve” disse semplicemente.
L’Uomo si girò lentamente –senza mai perdere il passo- e fissò Bill, il quale notò che quegli occhi avevano assunta un tinta incolore come quella del cielo e della cravatta. Senza particolari intonazione, l’Uomo disse con lentezza: “Salve”.
“Mi chiamo Bill. Piacere” e allungò una mano.
“Albert” disse l’uomo, senza badare alla mano di Bill. Dopo quello che sembrò uno sforzo immane, l’uomo tornò a guardare fisso davanti a sè.
Bill restò un po’ confuso, non sapendo se continuare la conversazione oppure no.
“Lascialo perdere, ragazzo” disse una voce all’improvviso. Bill si girò di scatto e vide un uomo di poco più grande di lui –metà 40- vestito con una giacchetta semplice sopra una camicia. “Non ti risponderà”
“E come mai?” chiese Bill.
“Perchè sta pensando. Se si distrae, deve ricominciare tutto da capo. Comunque, io mi chiamo Henry”
“Piacere, io sono Bill”
“Ciao Bill. Non è che hai da fumare?”
Bill ci pensò un attimo –ma io fumo?– e si tastò la giacca per un pezzo prima di scuotere la testa.
“Non preoccuparti, ragazzo, è uno scherzo. Qui nessuno fuma” disse Henry.
“É vero, non ci avevo fatto caso. Sai il perchè?”
“La gente qui non fuma per lo stesso motivo per cui non ride, non si bacia, non si getta in una rissa e tutto il resto. Qui si pensa e basta”
“Pensare?” chiese Bill. “A cosa?”
“Non mi dire che sei nuovo” fece Henry, con un sorrisetto serio in volto.
“Non so nemmeno cosa voglia dire”
“Vuol dire che fai parte di questa colonna di sfollati da poco tempo. E questo può voler dire solo una cosa”
“Cosa?” chiese Bill. Henry però non rispose. Guardò per un attimo dritto davanti a sè, poi passò in rassegna le colonne di fumo sulla destra, come se la risposta stesse lì e Bill non la vedesse.
-(continua a leggere)-

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